È finalmente giunto anche in Italia (ad oggi terzultima nazione in ordine di uscita) il tanto chiacchierato ottavo film di Quentin Tarantino. Ad essere precisi si tratta propriamente dell’ottavo se si considerano solo i lungometraggi puramente tarantiniani, escludendo quindi Four Rooms (1995, a episodi), Sin City (2005, in cui il nostro figura come “special guest director”) e Grindhouse (2007, la cui paternità nella sua interezza è condivisa con Robert Rodriguez).
The Hateful Eight è l’ennesimo eccezionale prodotto di uno degli autori più emblematici dell’epoca attuale, irriducibile metro di paragone e protagonista della scena, si accettino o meno l’estetica e la logica delle sue narrazioni. Egli è uno dei pochi (se non il solo) ad avere l’autorevolezza necessaria a proporre al grande pubblico di oggi (potenzialmente peraltro a conoscenza della trama presente, visto lo sfortunato e sostanzioso trapelare di informazioni avvenuto su Internet a inizio 2014) quello che è stato promosso come un “nuovo” western, dopo l’esaltante esperienza di “Django Unchained” (2012), dunque epigono di un genere ormai abbandonato, per di più contestualmente soggetto a forti contaminazioni crime e più tangenzialmente horror, in ossequio alla dichiarata aspirazione al voler esplorare quante più sfumature possibili in seno ad una produzione limitata.
Non solo, un western di tre ore nella versione distribuita limitatamente in pellicola Ultra Panavision da 70 mm, testimonianza della malinconica cinefila ammirazione per l’aspetto “glorioso” (com’è stato definito in campagna promozionale) di tale supporto, utilizzato in passato per titoli quali Gli ammutinati del Bounty (1962), Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo (1963), La più grande storia mai raccontata (1965) e Khartoum (1966). Rinunciando ad una lucentezza che, stando alle dichiarazioni del regista stesso, le parrebbe estranea, la più corta edizione digitale conserva tuttavia l’inusitato rapporto d’aspetto 2,76:1, il quale permette alle inquadrature (fotografate dal veterano Robert Richardson, nominato al suo nono Academy Award) di contenere gruppi di personaggi collocati in distanti piani spaziali altrimenti difficilmente apprezzabili con un solo sguardo d’insieme.
Tale scelta non è poi certo ridotta ad un puro sfizio estetico, bensì elevata ad espediente essenziale alla drammaturgia scenica, che richiede l’impressione simultanea di un nutrito e variegato manipolo di figure “da tenere sott’occhio”, otto bastardi pieni d’odio, spinti tanto da un’inedita quanto improbabile serie di circostanze, e in ogni caso costretti dalla gelida bufera natalizia, a trascorrere le ore più terrificanti e decisive della propria esistenza in un emporio, gli uni a maledettamente stretto contatto con gli altri. C’è il sospetto di una congiura, una cospirazione che sottragga l’unica donna formalmente riconosciuta come prigioniera (agli atti, non lo sono forse tutti?) al cacciatore di taglie John Ruth, detto “il Boia” (rispettivamente Jennifer Jason Leigh, per la prima volta nominata agli Oscar, e Kurt Russell).
A seguito della presagita apertura delle “danze mortifere”, che porta con sé una brusca cabrata di tono, l’altro cacciatore di taglie, l’ex-maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson), e il (così pare) futuro sindaco della città di Red Rock Chris Mannix (Walton Goggins), assumono il ruolo di improvvisati investigatori intenzionati a vendere cara la pelle e a smascherare coloro che fra gli ospiti non sono quel che dicono di essere. Ad essere onesti non c’è profilo che non appaia losco in questa vicenda, celante nel proprio burrascoso passato un qualche legame pronto ad emergere in questo inferno ai confini della civiltà e ad esaurire il rapporto interessato in una dirompente ed ingorda crudeltà.
Marchio di qualità di questo tragico processo è ancora una volta la sceneggiatura, veicolo privilegiato che tiene saldamente le redini della rappresentazione, armandosi capitolo dopo capitolo di una ricchissima serie di metafore, “trucchi bastardi” e turpiloqui che aprono finestre su argomenti sempre più cari a Tarantino, quali l’odio razziale, la misoginia, le polemiche sulla storia americana (in questo caso le conseguenze della Guerra di Secessione), costantemente (e per palesato volere) in bilico fra il rispetto dovuto a chi sa incantare anche i serpenti più velenosi e l’insofferenza per l’atmosfera menzognera che sotterraneamente si libra fra quelle mura lignee fin da prima dell’arrivo dell’ultima diligenza per Red Rock.
Più ci si addentra negli avvenimenti, più si percepisce (e si può apprezzare) l’attenzione riservata alla sottile sanguigna vena umoristica che si applica ad una costruzione a incastro da giallo in rivisitato stile hitchcockiano, denso di dettagli che passano sullo schermo (con grazia, è il caso di dirlo, assolutamente estranea a lentezze e carenza di smalto) a volte senza neanche palesare la loro condizione sensibile, mascherati persino da comici impedimenti, e di colpi di scena efficaci tanto quando messi in atto da una risoluzione fisica (ed è qui che il noto gusto per lo splatter trova coerente collocazione, stilisticamente assecondato anche dall’inserimento di motivi iconici come il Tema di Regan da L’esorcista II – L’eretico, 1977, e di altre musiche aggiunte tratte da La cosa, 1982), quanto da una coraggiosa ed incredibilmente disinvolta macchinazione verbale. Le suddette vette espressive sono il motivo degl’immancabili divieti che con singolare varietà si appongono alla distribuzione internazionale (dal VM 12 della Francia al VM 21 di Singapore, mentre nei confinanti Colorado e Wyoming, ossia luogo delle riprese e ambientazione della storia, è certificato il VM 18).
Ultimo elemento chiave che va magistralmente ad alimentare le tensioni consumate nel podere di Minnie risulta il commento musicale firmato da Ennio Morricone, dotato fin dal piano sequenza ove compaiono i titoli di testa del non comune pregio di riuscire a titillare una delle sfere emozionali elementarmente più sensibili del pubblico attraverso modulazioni d’immediata percezione che al contempo non rinuncino ad una rielaborazione autoriale inconfondibile. A visione ed ascolto conclusi è facile riconoscere la liceità della nomination agli Oscar per la colonna sonora, la dubbia giustizia nell’esclusione di alcune performance (forse davvero un bastante numero di membri votanti ha trovato non sufficientemente memorabili Jackson e Russell?), della regia, della produzione, così come l’assurdità dell’assenza della sceneggiatura originale nell’ambito dell’accennata competizione.