Nel 1966, mentre Sergio Leone lanciava Il buono, il brutto, il cattivo, un altro trio da spaghetti western calcava saporitamente il grande schermo in un film di Damiano Damiani, tra i migliori del genere: El Chuncho (Gian Maria Volonté), El Santo (Klaus Kinski), El Niño (Lou Castel).
La pellicola s’intitola Quién Sabe; e, per restare in tema “leoniano”, varrà la pena ricordare come sia stata una delle prime ad essere servita in salsa messicana, occupandosi cioè della rivoluzione, insieme a Tepepa (Giulio Petroni, 1968) e Vamos a matar, compañeros (Sergio Corbucci, 1970), e prima di Giù la testa (1971). Il buono, nel film di Damiani, potrebbe essere El Santo, un Kinski indimenticabile in versione Savonarola dinamitardo: è un predicatore toccato dal grilletto facile e della favella sciolta, visionario anche senza l’acquavite, che collabora col fratello, El Chuncho, capo di una banda di ribelli che fornisce armi alla rivoluzione. Quest’ultimo, interpretato da Gian Maria Volonté, è indubbiamente il brutto: un messicano dal viso sporco, che alterna assalti ai treni con bivacchi festaioli tra alcol e señoritas. Tanto più rispetto al cattivo, El Niño, quello yankee troppo elegante per la polvere del deserto, col viso troppo pulito di Lou Castel, ma il cui unico valore dichiarato è il denaro: non a caso è un sicario, che si unisce alla banda di ribelli per ragioni d’interesse.
È un triangolo pericoloso: El Chuncho ed El Santo sono fratelli, ma quest’ultimo non esiterebbe a giustiziare il sangue del suo sangue per la causa della rivoluzione; El Niño ed El Chuncho diventano amici, ma sono pur sempre un americano ed un messicano, entrambe col calcio della pistola caldo. Quando l’identità del caballero del nord viene alla luce, i rapporti tra i due si “rivoluzionano”. Ribelli, ribelli dei ribelli ed americani troppo belli per i messicani. Quién Sabe è una miscela esplosiva, con la miccia accesa dall’elaborata sceneggiatura di Franco Solinas (su soggetto di Salvatore Laurani) per far (ri)saltare l’imperialismo americano. Mentre Kinski appare strategicamente come un santone fantasma in poncho monacale e granate, il film è costruito per lo più sulla strana coppia formata da un Volonté di sozzo istrionismo ed un Castel algido, sorta di Van Cleef sbarbato – anzi, “sbaffato”, dall’aspetto di cecchino gentiluomo. Ma i buoni non ci sono, al più gli straccioni: l’americano danaroso, ambiguo e senza scrupoli è asservito, trasparentemente, al contenuto socio-politico dell’opera. Se la classe dei peones va in Paradiso, è solo a costo della vita del ricco latifondista, che prima di morire chiede: “E’ perché sono ricco?”, e gli si risponde: “No, è perché noi siamo poveri… vogliamo la terra”. Un angle tanto più significativo per l’istintiva compunzione di contadini e banditi nella casa patrizia del proprietario di terre, un imbarazzo impersonato benissimo mimicamente dalle contrattazioni con la bocca piena di Volonté e dall’energica sfregata testicolare al cospetto di cotanto lusso.
La distanza culturale, caratteriale, etnica, di classe (sociale e comportamentale) tra El Chuncho ed El Niño è probabilmente l’aspetto più interessante su cui Damiani riesce a speculare, tra vino, sporcaccioni, pupe, rese dei conti, tradimenti e colpi di scena all’acqua di rose, entro una storia un pizzico sfilacciata e non priva di qualche cedimento di ritmo, ma godibile. Dalla città i banditi sono riusciti persino a strappare ai soldati una mitragliatrice: ma, bella roba, i pitocchi messicani non sanno nemmeno come usare un semplice fucile Mauser, in una scena in cui El Chuncho prova a cimentarsi in un improbabile addestramento in cui rischia di rimetterci le penne, per la goffa imperizia tecnologica dei suoi. Un Sergente Garcia, dunque; mentre a maneggiare la mitragliatrice, armaiolo professionista, non a caso è l’americano. Che poi, nei bailamme del quartier generale del generalissimo messicano, Elias (Jaime Fernandèz), senza troppo strepito, né sudore, farà il suo sporco, pulitissimo lavoro con un’elegante ed implacabile pallottola d’oro: roba da sfamare – o da ammazzare – un messicano.
Ficcante fotografia di Toni Secchi, che fa breccia con dosati campi lunghi nei paesaggi dell’Almeria; commento musicale di Louis Bacalov, con la supervisione di Ennio Morricone. Utili i caratteristi, per completare il cast dei pariah messicani; meno le donne, che sono però funzionali a rimarcare il dualismo portante del film: Carla Gravina nei panni di Rosaria, moglie del latifondista, è una padrona distinta, ma soprattutto distante – dalla massa dei suoi servitori; Martin Beswick è Adelita, focosa regina dei trogloditi nel fuoco incrociato, fatta però sparire troppo presto. Ma la seduzione principale non è quella femminile. El ChunchoVolonté risente piuttosto del fascino discreto della borghesia di El NiñoCastel, al punto da comparire, in una delle ultime scene, tosato e sbarbato. La sua irriducibilità rivoluzionaria è però una questione di genetica panchovilliana. Questa tensione della distanza incolmabile dal signorotto con la pallottola d’oro è resa da Volonté con irresistibile ironia, in una riformulazione dell’impegno politico col sorriso sulle labbra riarse dal sole del mezzogiorno americano: Quién Sabe?, così, diventa una commedia western degli equivoci di classe.