Erano già denominati sicari, nell’impero dell’antica Roma, gli estremisti ebrei (propriamente gli zeloti) che ricorrevano all’omicidio terroristico in reazione all’invasione straniera. E’ la prima importante informazione che trapela dallo schermo con l’intento di indirizzare l’attenzione del pubblico verso una più profonda comprensione delle logiche che interessano il film di Denis Villeneuve, Sicario. Al confine tra USA e Messico, lingua di terra notoriamente al centro di polemiche e dolorose controversie, è posta in qualità di volontaria Kate (Emily Blunt), agente dell’FBI dalla retta condotta decisa a punire i responsabili di un’orribile strage i cui resti sono stati rinvenuti all’interno di un’abitazione rientrante nelle cospicue proprietà di un boss del narcotraffico. Viene introdotta in una task force che mira a richiamare in patria il ricercato pluriomicida, in maniera da incastrarlo legittimamente. Ben presto però la trasparenza della missione si offusca, in virtù del sospetto agire del responsabile principale (Matt, Josh Brolin) e del suo “segugio”, Alejandro (Benicio del Toro).
La grande incognita che il lungometraggio pone riguarda la legittimità di diventare lupi per combattere lupi, per di più in un territorio dove i limiti della giurisdizione si fanno di giorno in giorno più labili. Che sia nella bellicosa città di Juarez o in uno strettissimo tunnel all’interno del quale transitano ogni notte quintali di droga, l’intervento delle forze dell’ordine, agli occhi “da americana” di Kate motivo di scalpore e indignazione difficili da reprimere, non risparmia né mezzi né vite. Dà giusto spessore a questa tensione interiore una vigorosa Emily Blunt, protagonista dal punto di vista strettamente filmico, ma solo importante testimone in termini morali. L’autentico albero maestro che tiene salde le redini della vicenda è l’affascinante personaggio affidato alla recitazione misurata e coinvolgente di Benicio del Toro, che riesce pienamente a giustificare, via via che ci si avvicina al potente epilogo, i chiaroscuri che lo caratterizzano lungo tutto l’arco del racconto.
E’ l’emblema principe di quelle dissonanze che intercorrono tra interpretazioni dell’etica della giustizia e tra metodi risolutivi, elementi che poi vanno ad alimentare il valore superiore di questo action-thriller (passato, tra l’altro, a Cannes), costruito abilmente nel presentare parallelamente due realtà distanti destinate ad una convergenza gravemente drammatica, mirabile nell’allestimento delle sequenze più violente ed incandescenti, le quali possiedono la facoltà di spargere nei minuti coevi un sentore di tragedia che sapientemente innerva di suspense scene volutamente più distese, di apparente stasi narrativa, a rischio, come successo di recente in Blackhat di Michael Mann, di andare incontro ad una grammatica ardua da sostenere.
L’interesse per i vasti paesaggi desertici e atmosferici permette allo studio approfondito del direttore della fotografia Roger Deakins (nominato finora 12 volte all’Oscar senza mai risultare vincitore) di dotare le scenografie di un’anima compartecipante al torbido soggetto, che evidenzi la crudeltà, l’irruenza, l’assenza di pietà di cui si armano e gloriano i militanti. Ruolo affine è svolto dalla colonna sonora di stampo minimalista, perfettamente collocata nella drammaturgia di Sicario, di Jóhann Jóhannsson, compositore che in anni recenti si sta affacciando con autorevolezza esemplare nel panorama internazionale (sue sono le musiche de La teoria del tutto). Un ottimo sonoro, infine, insiste nell’accrescere l’entità dell’impatto con quella che, a ben riflettere, è una descrizione impietosa e realistica di un conflitto che da troppo tempo non fa che mietere vittime e alimentare gorghi di attività illegali.
Qui potete trovare la video recensione di Raffaele Lazzaroni su Sicario