Numero cinque. Siamo alle soglie di un livello narrativo potentissimo e inarrestabile. Ci si può fidare di un’immagine che si ripete come un’onda gravitazionale senza concedere mai pause di riflessione, giungendo sempre al cuore di una sintassi che abbaglia e deraglia ogni elemento visivo e porta alla saturazione un modello narrativo trasfigurato a piene mani in una colossale metafora dell’ipovisione nascosta nella visione totale? Bourne torna a dar battaglia contro il Centro Operativo di Langley, che lo ha addestrato trasformandolo in una macchina da guerra. Chi comanda chi? Lo si scopre dopo un’ora di film. Come sempre, nel cinema di Paul Greengrass le spiegazioni non arrivano mai dirette e bisogna fare attenzione ai dettagli. Cineasta visivo come altri, pur rimanendo sempre in un contesto di massimizzazione scenica ovvero, più ci si addentra nella storia e più si scopre che tutte le pedine sono direttamente o indirettamente collegate.
Un tempo questo cinema geo-politico era in mano a registi del calibro di John McTiernan (Predator, Die Hard, The Hunt for Red October), oggi che la fiction si è frammentata con le serie tv, il cinema torna spietatamente a raccontare un livello sempre più estremo di foto-realismo (vedere la scena di fighting tra Damon e Cassel). Alla fine tutto si tiene in una rete connettiva di sbalorditiva precisione. Lo stile di ripresa classico non interessa a Greengrass. I tempi sono cambiati e si necessità di una contro-visione che faccia appello alle capacità percettive dello spettatore: vedere meglio, vedere sfocato, mettere in scena sequenze d’inseguimento come in un loop senza soluzione di continuità. La visione verticale del franchise di Bourne appaga e smitizza la voglia d’inseguimento oltraggiando la purezza di un sguardo sempre in surplus di eventi.
Un cinema così mobile e disarticolato sembra partire dall’idea postmoderna che nulla è come si vede perché tutto debba essere riconsiderato secondo nuove angolazioni. Da Einstein ad Eisenstein. Dalla teoria della relatività alla teoria del montaggio sincopato. Quanti stacchi si contano in Jason Bourne? Quanti se ne erano contati su The Bourne Supremacy e The Bourne Ultimatum? Limiti sembra non ce ne siano e la visione rimane incollata ad un inquadramento superiore rispetto ad altri film d’azione. Forse siamo già in territorio autoriale, anche se Greengrass, regista operaio, non punta alla dialettica critica sul suo cinema. Certo, una parte enorme della qualità identificativa del suo cinema, come capita a tutti i grandi autori di questi ultimi 20 anni, la si deve alla fotografia. Dopo il bagno di luce disegnato da Janusz Kaminski in Minority Report (2002), quella traccia estetica deve essersi fatta larga ad Hollywood e prima Oliver Wood e poi Barry Ackroyd devono aver preso l’operazione Spielbergiano-Dickiana come una matrice visiva da cui attingere a piene mani.
La struttura narrativa di Jason Bourne è tripartita, in modo similare agli altri capitoli del franchise, per arrivare ad uno snodo cruciale che farà ripartire di nuovo la narrazione. Greengrass raggiunge una rinnovata capacità di raggiungere lo zenith del pathos senza cadere nel deja-vu. In ultima istanza: visti gli ultimi capitoli di Bond (Spectre) e Ethan Hunt (Mission Impossible Rogue Nation), quale franchise è riuscito a mettere meglio in scena il rapporto tra l’eroe contemporaneo e il mondo globalizzato di oggi? Quella di Bourne è una saga che getta il sasso in un stango ben più vasto con l’obiettivo di spalancare la visione lasciando intatta la prospettiva dello sguardo plurimo.