- Argo è un film che titilla l’establishment politico e culturale. La pista “politica” è però abbastanza scivolosa. Di cosa parla infatti Argo? Di un’operazione militare in senso lato: ossia l’esfiltrazione di un gruppo di americani dall’Iran della rivoluzione di Khomeini. Posto che, per un americano medio, il lato patriottico della riuscita fuga da un paese nemico è pressoché irresistibile (si pensi a Fuga per la Vittoria), la natura ideologica del film rimane ambigua: dato l’orientamento liberal prevalente a Hollywood, l’opera di Affleck dovrebbe suscitare una certa qual ripulsa, considerando il suo taglio conservatore. Di fatto gli americani vengono dipinti come bravi, buoni e democratici, a fronte dei brutti e cattivi iraniani seguaci degli ayatollah (anche se la figura della domestica indigena dell’ambasciatore canadese, che non tradisce i fuggitivi, lascia aperta una scappatoia contro il manicheismo della rappresentazione). Di più: la CIA, come molti hanno rilevato, è vista con aperta simpatia. Tanto basta per dire che questa impostazione non convince molto.
- Un’altra possibile lettura è quella autoriale: Argo sarebbe il frutto di una maturazione registica, stilistica e tematica di Affleck. La tesi potrebbe a prima vista risultare ineccepibile: dopo l’esordio simil-eastwoodiano (Gone Baby Gone è raffrontabile in minore con Mystic River, del quale riprende le complesse criticità), Affleck ha girato un thriller che cita tutto quanto può dei giganti riconosciuti del genere (dalla Bigelow a Mann, tanto che in The Town ci sono persino inquadrature identiche a quelle di Heat), mettendo così in luce lo spirito di riverenza di Affleck, ma anche il suo desiderio d’ispirarsi a solidi maestri. Argo chiuderebbe il cerchio e registrerebbe una crescita robusta, essendo un film che pur guardando ai modelli dello spy anni 70 non sarebbe influenzato eccessivamente da essi e, anzi, ne costituirebbe un’efficace attualizzazione. Malgrado il buon esito generale del film, tuttavia, i difetti nell’opera ci sono, eccome. A tal proposito, basterebbe osservare che la mezz’ora finale, strutturata in montaggio parallelo tra l’aeroporto di Teheran e gli uffici della CIA negli Stati Uniti, si fonda su una suspense abbastanza elementare, semplice – anche se non per forza semplicistica – nella sua scansione, e non regge il confronto non diciamo con classicissimi come I Tre Giorni del Condor, ma neppure con diversi buoni thriller degli anni Settanta.
Scartate o almeno ridimensionate queste due ipotesi, ci sentiremmo di avanzare una terza opzione, più ibrida quanto alla sua natura: Argo è un film che evoca e si riallaccia idealmente ad un periodo in cui il cinema americano dominava il mondo con la forza delle sue storie e del suo immaginario più che con l’arroganza della superpotenza, militare e non (come accadrà a metà degli anni Ottanta, sotto la presidenza Reagan). Un momento magico, che si concretizzò sul finire degli anni Settanta, con Lucas (il primo film della saga di Star Wars) e Spielberg (Lo Squalo e Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo) a dominare i botteghini di tutto il mondo e a proclamare una sorta di Rinascimento del grande spettacolo cinematografico a fronte della concorrenza televisiva. Non è un caso che la copertura dell’operazione di fuga dei sei americani da Teheran sia affidata ad un inesistente film di serie B, intitolato Argo per l’appunto, sul modello della fantascienza lucas-spielberghiana, e corroborata da un finto numero di Variety, autorevole organo di informazione cinematografica persino nell’Iran della rivoluzione.
Se aggiungiamo a questo che la “fabula” di Argo assomiglia curiosamente a quella di un film amatissimo dal pubblico di tutto il mondo come Le Ali della Libertà (in cui il foro per fuggire dalla prigione è nascosto da un poster di Rita Hayworth, ossia da un indiscutibile simbolo del cinema, esattamente come Argo – il film finto – copre l’esfiltrazione degli americani dal paese islamico), finiamo per ben comprendere quanto sia suggestivo un lavoro come quello di Affleck, nonostante alcuni palesi limiti di personalità della pellicola. In fondo, il cospicuo successo di Argo è nella sua facile fruibilità di massa e nella sensazione che trasmette di volontaria risintonizzazione del cinema americano su standard di qualità in certo modo “classica” dopo anni di ripiegamento e di messa in discussione dei modelli.
Ben Affleck non sarà ancora un regista di alto livello, ma rifacendosi ad un cinema di forte e planetario impatto ha intercettato la domanda di storie rassicuranti e in definitiva già conosciute da parte di una società (e di un’industria) in crisi.