Per quanto possa apparire legittimo, lampante, a suo modo, Heat – La sfida non è (solamente) il film di due grandi attori. La spettacolare caccia all’uomo che vedeva coinvolti Al Pacino e Robert De Niro oramai un ventennio fa, non è semplicemente l’opera-evento attorno alla prima, vera (ri)unione dei due più importanti interpreti della loro generazione. Heat – La sfida è, prima di tutto, il film che ha reinventato, con occhio personalissimo, il poliziesco negli anni Novanta e, insieme, il folgorante esempio (e l’inutile conferma) del talento registico di uno degli autori più significativi del nostro tempo.
Riadattando, in una sorta di trasposizione per il grande schermo, il suo tv movie L.A. Takedown (Sei solo, agente Vincent), il regista Michael Mann mette in scena l’adrenalinica cronaca di uno scontro/incontro tra due individui agli antipodi, tra due personaggi che la logica di genere vorrebbe irrimediabilmente inconciliabili. Ne tira fuori un thriller anomalo, che non teme il silenzio, la ridimensionata spettacolarità, il realismo dell’azione, dove sono le sfumature a colorare le esistenze, a stemperare una dicotomia solo all’apparenza tanto netta e assoluta. Mann dilata il tempo del poliziesco, ne riscrive la sintassi, ne ridetta le regole. Crea un dramma mastodontico e frammentario dove all’esasperato inseguirsi, studiarsi e scontrarsi del tenente Hanna (Pacino) e del gangster McCauley (De Niro) si accompagnano, sullo sfondo, in una vicenda dalla misurata seppur altisonante epicità, una varietà di esistenze collaterali, un puzzle di storie che, nonostante tutto, rifugge la parzialità in favore di una visione totalizzante che si fa affresco emozionale.
Heat è la storia di una caccia che non esclude la contaminazione prospettica. Duello tra due esistenze inavvicinabili dove è la recitazione stessa ad esplicitarne l’inevitabile alterità, con un Al Pacino costantemente sopra le righe, eccessivo, pulsionale, e un De Niro misuratissimo, freddo, calcolatore eppure, inevitabilmente, così umano. Infondo, è un cinema di persone e affetti quello che Mann costruisce sulle fondamenta di un genere rimaneggiato, riscritto eppure ancora intenso e capace di emozionare, dove la tensione si mischia ai sentimenti pur senza perdere il raziocinio costantemente calibrato di una regia impeccabile, di una messa in scena capace di orchestrare l’azione senza perdere mai il contatto con la più cruda realtà. Un noir anomalo che scavalca un ingombrante immaginario e cala a capofitto su una città emancipata dal semplice scenario evocativo, una Los Angeles più che mai reale e concreta che troverà quasi dieci anni dopo in Collateral (2004) la sua più drammatica esaltazione.
Un cinema intriso di senso etico e di solitudine, quello del regista di Strade violente (Thief, 1981) capace di fotografare un mondo popolato da professionisti totalmente votati al proprio lavoro (che sia del poliziotto o del criminale poco importa). Individui inevitabilmente soli, posseduti da un’intima smania che ha i nevrotici e vitali tratti dell’ossessione, un senso del dovere tanto personale quanto ingombrante che non ha nulla da spartire con l’ordine prestabilito, con le imposizioni della società, con quel Sistema che vorrebbe sempre forte e invalicabile quella linea così ambigua che separa il bene dal male, le guardie dai ladri.