Gravity ha fatto scuola. Ridley Scott continua a divertirsi con una nuova concezione di surfing spaziale. The Martian si presenta da subito come un tour de force estetico, basato su un minimalismo senza via d’uscita, per poi comprimersi, dando libero sfogo al rapporto drammatico di sintesi stretta tra spazio/tempo, fino a deflagrare nel trionfalismo più spinto, che fa impallidire anche il finale positivista e astutamente spettacolare del film di Cuaron.
A Ridley Scott però la space-opera va stretta. Il congegno narrativo, forse d’irripetibile complessità, di Interstellar non si può più ripetere, e solo Nolan avrebbe la chiave per determinare lo scarto quantico necessario, ad intervenire in maniera essenzialmente paradossale nella mente dello spettatore. Per quanto possa sembrare incredibile, lo script visivo di Interstellar, istallato nel nucleo visivo di The Martian combacerebbe alla perfezione. Ma la regia di Ridley Scott opera un ulteriore scarto. Il mind-blowing inventato dal regista di The Gladiator consiste nel presentare un incontro di pugilato tra un astronauta e il suo destino di morte. L’astronauta non si da per vinto e vende cara la pelle, riuscendo a resistere ad una missione spaziale che ormai sembrava compromessa (la spiegazione sul come abbia fatto a non morire viene descritta da Scott in modo approssimativo, ma forse è anche qua che si cela il fascino materico del film), costruisce un modello di vita alternativo su un pianeta sconosciuto e inospitale, davanti al plauso e all’incredulità della NASA, dei compagni che lo hanno abbandonato e dello spettatore, che si ritrova ad ammirare il gesto eroico e spavaldo di un survivor che dimostra di non aver paura di nulla.
Da Ridley Scott ci si aspetterebbero iperboli, collegamenti ipertestuali di maniera, quando non incoerenti. Invece la pulizia grafica cui si assiste fa pensare ad un ripensamento della propria filmografia da parte del regista. Le due opere precedenti, Prometheus (2012) e The Counselor Il Procuratore (2013), non sono passate indenni nel modo di lavorare di uno dei cineasti che più hanno sfruttato in chiave pop, le regole del mercato di hollywoodiano. The Martian è più solido di Prometheus, ha un livello d’ironia molto più smaccato e una ferrea morale: “se credi in te stesso e non molli mai, sarai ripagato dalla tua testardaggine a dalla tua dedizione al lavoro”. La lezione viene presa alla lettera da Scott, che non riproduce più l’incubo cormaniano di Prometheus, la teoretica sovrana dell’invasione del virus endogeno. La carica repellente di Prometheus viene sostituita dalla retorica del self-made-man, dalla concretezza degli eventi, dalla soluzione a portata di mano. Così ogni operazione su Marte viene preparata in modo meticoloso, documentario, il margine di rischio della missione di sopravvivenza viene calcolato in rapporto ad un periodo lunghissimo, e la sospensione dell’incredulità dello spettatore, raggiunge il suo massimo climax, nella scena dell’esplosione in cui la coltivazione di patate viene perduta.
Impossibile dire se la mancanza di dubbi e di malinconia del protagonista sia una falla del film. L’intero concept di The Martian si basa sulla nonchalcance di Matt Damon, il suo entusiasmo contagioso è il motore di un film a propulsione lenta e inarrestabile, ciò che manca è fuori dallo schermo, la sensazione del deja-vu viene sterilizzata dalla brillantezza di un cast super affiatato. Di conseguenza, se Prometheus si perdeva e affascinava, The Martian si risolve, lasciando cadere le sue singole perle estetiche nel vuoto cosmico dello spazio, nel finale d’impossibile congiunzione tra poli positivi e negativi, nei segni d’interpunzione continui di collegamento tra una scena e l’altra, che segnano come una mappa che serva allo spettatore, per non perdersi all’interno del dedalo-film. Quando il film finisce si ha la sensazione che il trip cosmogonico sia appena cominciato. Ridley Scott vuole diventare un poeta del lirismo minimalista? The Martian assomiglia ad un film-cesura, come se la fine anticipata del suo cinema fosse stata rimandata, in un mondo narrativo perfettamente stabile, che continua a macinare iperboli, per la gioia di chi vuole rimanere in ascolto.