Manoel de Oliveira è sempre stato un cineasta provocatorio, politico, cantore autonomo di un’idea di cinema dove la parola assumesse un connotato semantico connaturato all’immagine. Lo strumento di questa idea centrale di cinema in surplus diegetico è l’utilizzo del piano sequenza fisso, dove il primo piano costituiva il senso dell’eterogeneità insita nell’inquadratura. Inquadrare per de Oliveira significava apportare un senso ultimo alle cose, deviare il senso materico di ogni elemento scenico per fare del profilmico un’attività di cinesi della memoria e dell’inconscio muoversi nell’oceano delle immagini perdute nell’indifferenziato gorgo dei media.

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Il cinema di de Oliveira ha sempre richiesto un preludio affaticante nello spettatore, dove le istanze autoriali erano direttamente connesse con una spoliazione dell’immagine tale da rendere lo sguardo aperto verso un contro campo rivelatorio. La carriera del regista portoghese inizia con Aniki Bobò (1942), dramma di strada nella Porto degli anni ’40, ma è solo da Atto di primavera (1963) che l’attività di cineasta proseguirà costantemente senza interruzioni fino a Gebo e l’ombra (2012). La sua attività inizia ad intensificarsi solo dagli anni ’80, (dopo Benilde o la vergine madre del 1975) a partire dal 1981 con Francisca, corposo dramma di 166 minuti, proseguirà con Le soulier de satin (1985), film fiume di 410 minuti, con Luis Miguel Cintra e una giovanissima, già splendida, Anne Consigny (la ritroveremo in forma smagliante in Vous n’avez encore rien vu di Resnais del 2012 e in Un conte de Noel di Desplechin del 2008); fino al famoso I cannibali (1988), con il quale inizia il lungo sodalizio con l’attrice feticcio Leonor Silveira.

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Con il dramma politico No, la folle gloria del comando (1990) de Oliveria entra nella importante fase degli anni ’90, in cui si evidenzierà in modo ancora più forte la tendenza alla lentezza di uno sguardo dove la liturgia filosofica dell’immagine rende la parola  eterno corollario di una dialettica dove lo sforzo ermeneutico del cinema si fa evento di grazia e di composizione aulica. Dal 1991 al 1999 film come La divina commedia, La valle del peccato, I misteri del convento, Party, Viaggio al centro del mondo, Inquietudine e La lettera, fanno parte di una cosmogonia di mondi paralleli dove il vertice del discorso trascende la singolarità di ogni singolo capitolo. La capacità di de Oliveria di fondere immagine e parola si evidenzia dalla pregnanza argomentativa di un cono di luce riflettente l’anima dell’Europa alla ricerca di un cantore.

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La fase degli anni ’00 forse è persino più importante rispetto al decennio precedente. Da Parole e utopia (2000), a Ritorno a casa (2001) e Porto della mia infancia (2001), da Il principio dell’incertezza (2002) a Un film parlato (2003), da Il quinto impero (2004) a Specchio magico (2005), dal sequel impossibile di Bella di giorno di Bunuel, Belle toujours (2006), fino alla provocatorio film storico Cristovao Colombo O enigma (2007), fino a Singolarità di una ragazza bionda (2009) e al mélo sulla morte di Lo strano caso di Angelica (2010), uno dei suoi film più surreali e illusori, de Oliveria diventa sempre il più cineasta di punta di questi ultimi 30 anni, quello che più riusce a sondare il mistero insito nell’inquadratura, nell’atto di guardare e di inquadrare una forma, al pari di grandi autori come Aleksandr Sokurov e Albert Serra. Nel 2004 La Mostra del Cinema di Venezia lo celebra con il Leone d’Oro alla carriera.

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In particolare Un film parlato si erge a esempio di un cinema storico-politico dove la provocazione anti-cinematografica dell’immobilità dei piani sequenza determina un’operazione didattico-etica sull’atto del guardare. Cinema che mette in scena una famiglia di turisti senza fare del turismo. De Oliveira tratta l’immagine con la pacata silenziosità del demiurgo che rivede la teoria della immagine come un libro di Storia spiegato con la semplicità di chi non ha nulla da dimostrare. Il suo ultimo film Gebo e l’ombra è un’acuta riflessione intorno alla crisi di questi ultimi anni, attraverso una ricostruzione storica che amplia lo spettro immaginifico dello spettatore. Come in ogni suo film, il senso di una ricostruzione storica è nel dettaglio di un’inquadratura che si forma come dipinto e poi diventa parte integrante di un discorso ben più ampio sulla nascita dell’immagine.

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Il grosso problema del cinema di Manoel de Oliveria è che la sua filmografia, ad eccezione di Lo strano caso di Angelica, non è disponibile in Bu Ray. Auspico che in futuro ci possa essere una riedizione dei suoi film, almeno di quelli più importanti, da I cannibali a La valle del peccato, da I misteri del convento a Un film parlato, fino a Il quinto impero e Cristovao Colombo. Con il Blu Ray si ri-vedrebbe tutto un altro de Oliveira, un cinema forse primordiale che nella visione in home video non è ancora stato possibile vedere.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).