Hollywood ha una specie di venerazione per Christoph Waltz. L’attore austriaco classe ’56, prima di diventare una star, aveva alle spalle una carriera trentennale di produzioni austro-tedesche, molte delle quali televisive, tra cui spiccano il Commissario Rex (1994-2008) e L’Ispettore Derrick (1974-1998).
Non appena Quentin Tarantino decise di fare Bastardi senza gloria (2009), dovendo assegnare il personaggio del Colonnello Hans Alda, la sua scelta cadde, in maniera assolutamente vincente, su Waltz. E così, come spesso succede nel cinema, un grande caratterista, magari famosissimo in patria, ma del tutto sconosciuta al grande pubblico, acquista una fama gigantesca grazie alla lungimiranza di un cineasta americano illuminato il quale, fregandosene a 360° di cose come il digitale, gli effetti speciali, il 3D, e i fumetti, punta con decisione sul cast, selezionando ottimi volti per il grande schermo.
Waltz oggi è un attore ormai lanciato nell’empireo dei grandi caratteristi, simile per carisma ai grandi vecchi “di una volta” della Hollywood classica, giganti come Roy Scheider o Gene Hackman (che non ha mai fatto la Star, e di attori come lui si è perso lo stampo), arrivando a vincere due Oscar per i due film interpretati per Tarantino, Bastardi senza gloria e Django Unchained (2012).
Tra questi grandi successi, Waltz infila altri due titoli, nella sua sempre più ricca filmografia, comparendo anche ne Il calabrone verde (2011) di Michel Gondry, fallimentare incursione nel cinema fumettistico, di un cineasta molto amato dai francesi e dai critici, e in Carnage (2011), grande thriller grottesco da camera di Roman Polanski.
Polanski aggiunge qualcosa alle maschere comico-sadiche interpretate da Waltz negli western di Tarantino, aggiungendo una vena di “follia morale” che non aveva rivelato in precedenza.
In Carnage l’attore austriaco fa emergere un velo di ipocrisia e di meschinità viscida, che rende il gioco al massacro di Polanski un gioco sottilmente perverso.
Ben pochi hanno avuto modo di affermarlo, ma Carnage si può considerare come un perfetto remake del film più completo che Polanski abbia mai girato, Cul-de-sac (1966), un altro gioco affilato congegno di smaterializzazione della commedia, innestata in un contesto di follia, in un ambiente soffocante, immobile, senza via d’uscita.
In Carnage Waltz è Alan Cowan, imprenditore che fa della sua professione una religione di morte, in cui il profitto è al principio di ogni nefandezza: la performance dell’attore austriaco, in sintonia con l’intero cast, porta lo sguardo polanskiano luciferino, glaciale, immobile, verso vette di purezza che immergono lo spettatore in un microcosmo sociale dove le barriere sociali saltano e la violenza latente dilaga (come dimostreranno poi, le disperate botte date dal personaggio di Jodie Foster all’ottuso marito John C. Reilly).
Waltz è performer di rara grandezza, uno dei pochi attori che riescono ancora a rendere sublimi pochi attimi di recitazione. Tutte le singole scene di Bastardi senza gloria sono dei piccoli capolavori di astuzia registica, con picchi elevatissimi di recitazione, dove il guaio del film è che gli attori tedeschi (Waltz e Michael Fassbender, ma anche Diane Kruger) sono nettamente superiori rispetto ai colleghi americani (Pitt, Roth), provocando dei netti contrasti visivi e narrativi all’interno del film, cosa che non giova affatto all’economia narrativa del kolossal di Tarantino sull’attentato al Fuhrer.
In Django Unchained invece, Waltz si limita ad interpretare un personaggio monocorde, in cui tutto quello che dovrebbe succedere, puntualmente, succede, senza cambi di registro, senza sorprese, in una narrazione del tutto scontata, innestata su una insopportabile dilatazione narrativa di cui non si capisce il motivo. Tarantino pare essere il primo regista al mondo a “citare” la lentezza del cinema di una volta, forse per effettuare un’operazione politica contro il cinema blockbuster hollywoodiano ipercinetico dei Transformers e dei Pacific Rim.
Tra le opere più recenti nella filmografia di Waltz la favola fantascientifica di Terry Gilliam, The Zero Theorem (2013), presentato in Concorso alla 70a Mostra di Venezia, e Big Eyes (2014) di Tim Burton.