«Ci sono solo due categorie di persone: i cattivi e i molto cattivi. Ma noi siamo giunti ad un accordo e chiamiamo buoni i cattivi e cattivi i molto cattivi». Le parole pronunciate da Fritz Lang identificano l’intenzione narrativa del regista austriaco portata avanti dagli esordi con il cinema muto, fino alle grandi produzioni hollywoodiane. Il grande caldo tratto dall’omonimo romanzo di William P. McGivern e sceneggiato dalla penna del maestro del noir Sydney Boehm, è una storia cruda e necessaria, che tocca con una perfezione formale ineguagliabile, il tema scottante quanto non mai nell’America degli anni Cinquanta, la comunione d’ intenti tra polizia e crimine organizzato.
Debitore del precedente poliziesco Il grande sonno di Howard Hawks del 1946, con la coppia Humphrey Bogart – Lauren Bacall, il film di Lang lo reinterpreta rimanendo fedele al proprio stile. Dave Bannion è un onesto uomo medio diventato per necessità il combattente della criminalità. Ma a differenza di Marlowe non è un eroe da romanzo, che si aggira per la metropoli oscura filosofeggiando sull’esistenza. Glenn Ford, in una delle sue migliori interpretazioni, diventa furia omicida per amore della moglie uccisa.
Come già in M, anche nei film americani The Big Heat e While the City Sleeps, Lang dipinge attraverso l’ accostamento di immagini sobrie e affettuose, legate alla normalità familiare della vita di Bannion, l’altra faccia della città corrotta e spietata che lotta contro le pulsioni del sistema malavitoso sotterraneo. La duplicità della natura umana è rappresentata dalla prostituta Debbie, il cui volto nascosto sfigurato per metà cela l’ orrore delle azioni passate di cui è stata testimone e la volontà di riscatto per amore del poliziotto Ford. La donna del boss Gloria Grahame rimarrà legata al regista anche nel successivo La bestia umana girato due anni dopo, dove vestirà di nuovo i panni incantevoli di un’ ambigua seduttrice.
Il metteur en scène Lang, ancora più di Murnau, ha saputo traghettare l’ esperienza espressionista degli anni Venti verso nuove prospettive, riuscendo ad imprimere la sua estetica caratteristica su qualsiasi tema gli passasse tra le mani, dai feuilleton alle leggende germaniche, passando per le storie del West fino ai romanzi commerciali e le spy story. L’ incipit del film, il suicidio del sergente corrotto mostrato con le sole inquadrature di mano e pistola, già prefigurano l’ andamento della vicenda: mostrare poco per far vedere molto, infilare il tarlo nella mente dello spettatore senza dare a vedere la crudeltà delle azioni dei suoi protagonisti, come voleva la politica della censura statunitense molto restrittiva all’ epoca.
Il titolo “The Big Heat” in gergo della malavita americana significa non solo l’ arrivo di un’estate torrida, quanto piuttosto la morsa della polizia sul crimine. Dato che l’unico a farsi condottiero della moralità pulita è un detective tagliato fuori dall’ufficialità delle istituzioni, è ipotizzabile dell’ironia? Se così fosse, il maestro Lang avrebbe dato prova ulteriore della pratica artistica da sempre perseguita, evitare la ridondanza delle dichiarazioni esplicite in favore di un più asciutto lirismo formale.