Michael Fassbender è un attore profondamente maschio e apparentemente in-umano, divinamente ultraterreno, il cui sguardo da sagoma perfettamente delineata in una posa michelangiolesca, dimostra quanto al cinema il primo piano funga da rasoio per l’inquadratura: lo sguardo di Fassbender indirizza ogni livello dell’immagine, si fa notare la sua sottile predisposizione intimidatrice verso un’emozione che è puro elevarsi di argomenti segnici.
Il suo talento è visibile in film come Angel di Francois Ozon (2007), nel piccolo, decisivo ruolo che Tarantino gli offre in Inglourious Basterds (2009) (eccezionale la scena in cui per ordinare tre bicchieri fa un segno con le tre dita centrali della mano, che non corrisponde al modo con cui solitamente i nazisti indicano il numero, ovvero con il pollice, l’indice e il medio), in fine nei due devastanti apologhi morali di Steve McQueen, Hunger (2008) e Shame (2011).
Inutile dire che sia proprio in quest’ultimo film che l’attore di origini tedesche esprime al meglio la proprio fisionomia recitativa.
Il corpo di Fassbender è inquadrato da McQueen sempre attraverso una procedura di distacco programmato, che si acquattandosi piano piano al volto dell’attore, intimando una scelta di campo che rifiuta sempre zoom o improvvise accelerazioni. Nello stile di McQueen viene privilegiata una certa calma orientata verso la rivelazione misterica.
Fassbender, come si può notare ad ogni sua inquadratura ravvicinata, riesce nell’impresa di conferire una performance squisitamente asciutta, rinvenendo sempre un’aderenza mimetica al character, immergendo il film in una sfera asettica che funge labirinto di sguardi entro il quale ci si sente attratti e respinti.
Il Brandon di Shame è una figura della borghesia newyorkese perfettamente integrata all’interno della società, un uomo ricco, agiato, colto, raffinato che però non riesce ad instaurare una relazione d’amore, è prigioniero delle proprie voglie e dei propri desideri, non riuscendo mai a sentire un legame con l’altro al di fuori di sé. McQueen sceglie di non interpretare mai in senso moralistico il comportamento di Brandon, seguendo le sue peregrinazioni nei meandri della sua coscienza sempre più avvilita da una fame di carne che sembra non esaurirsi mai.
La mimesi di Fassbender nei confronti dei propri personaggi la si può vedere anche nei film citati prima, soprattutto nel film di Tarantino, nel quale, grazie al suo volto sempre calmo e leggermente scavato riesce, nei pochi minuti in cui è in scena (nel film Tarantino fa morire quasi tutti gli “eroi” del suo film, non risparmiando mai nessuno, eludendo con ferocia la maggior parte degli stereotipi del film di guerra, primo fra tutti, quello che vorrebbe, in un qualsiasi film sulla Shoah, gli ebrei come semplici vittime dei nazisti, invece nel film di Tarantino, spesse volte, gli ebrei paiono molto peggio dei nazisti stessi) a rimanere nella memoria, come nella stupenda scena con Mike Myers e con Rod Tylor/Winston Churchill, in cui si professa critico cinematografico, autore di un saggio metanarrativo (francamente una cosa mai vista in un film di guerra).
L’attore ha dato ottime prove anche in 300 di Snyder e in A Dangerous Method di Croneneberg, sempre calandosi con disinvolta nonchalance ora nei panni di uno dei soldati dell’armata di Leonida, ora nei panni del Dottor Jung, amante della problematica Knightley/Spielrein.