L’attrice australiana Mia Wasikowska è uno degli ultimi fenomeni dello Star system hollywoodiano degli ultimi 4 anni. La sua prima apparizione degna di nota è nella serie tv In Treatment (2008), remake americano di una serie israeliana.
Dopo essersi rivelata nel serial con Gabriel Byrne nel 2008, l’attrice australiana classe ’89 diventa famosa due anni dopo, grazie a due ruoli, nel kolossal della Disney diretto da Tim Burton, Alice in Wonderland (2010) e nella commedia indipendente I ragazzi stanno bene (2010) di Lisa Cholodenko, a fianco di Julianne Moore e Annette Bening.
La Alice di Mia Wasikowska, dopo la versione animata, sempre della Disney, di Geronimi e Jackson (1951) e quella di Svankmajer Qualcosa di Alice (1989) che alternava live action e stop motion, mostra un’adolescente che prende subito coscienza del suo ruolo nella società e, dopo aver sconfitto il Ciciarampa e aver recuperato la propria “moltezza” nel mondo delle meraviglie, rifiuta il matrimonio combinato dalla famiglia con un damerino di buona famiglia e decide di dedicarsi all’imprenditoria.
La Wasikowska dona una figura moderna al personaggio di Alice, ma a Tim Burton questo cinema si vede che non interessa: il regista di Edward mani di forbice (1990) opera una perfetta calibratura estetica sulla vicenda carrolliana, senza aggiungere nessun elemento di contrasto, ma ossequiando pedissequamente la rotta del carrozzone Disney, senza dare alcuna direzione al motore di un cinema che perde la sua partita con l’immaginario anche grazie alla pessima prova di un manierato e insopportabile Johnny Depp, forse al suo peggio in un film di Burton.
La morale è dunque scontata ma il film diverte a tratti e le scenografie sono portentose.
Ma tra i tre film tratti da Carroll questo di Burton è il meno resistente alla visione.
Decisamente di tutt’altra caratura è la commedia di Gus Van Sant, L’amore che resta (2011), toccante storia d’amore su una ragazza malata terminale di cancro e uno strano ragazzo orfano dei genitori, interpretato dal figlio di Dennis Hopper, Henry. I due si incontrano ad uno dei tanti funerali cui il giovane è solito andare, per una sua macabra tendenza, che lo vede essere attratto dalla morte.
Un film del genere è lodevole perché affronta temi forti con insolita delicatezza e con uno script che tende a rivoltare tutti i cliché del genere, che in questo caso è il cancer movie.
Alla fine ne viene fuori una piacevole, emozionante e tristissima vicenda dove è proprio il personaggio della Wasikowska che emerge, in un affilato ritratto che preserva dalla lacrima facile.
Ma si tratta anche di un’opera in qualche modo troppo sincera che non si ricorda per brillantezza. Gus Van Sant è un cineasta onesto ma non un genio capace di innovare e smuovere davvero un mondo narrativo. Smontare i cliché molte volte non basta, bisogna anche costruire un mosaico ben più variegato di stili e forme, cosa che a Van Sant non è quasi mai riuscito.
Mia Wasikowska compare in altri film di genere variamente di successo come Albert Nobbs (2011), a fianco di Glenn Close, Lawless (2012), gangster movie ai tempi del proibizionismo, Stoker (2013), a fianco di Nicole Kidman e nell’ultimo film di Jim Jarmusch, Only Lovers Left Alive, in uscita la prossima stagione, sempre che la distribuzione italiana non giochi un brutto scherzo.