“Io sono inevitabile”. E’ la battuta più significativa di Alice attraverso lo specchio (Alice Through The Looking Glass), sequel del fortunatissimo Alice In Wonderland del 2010, costato 200 milioni dollari e arrivato a incassarne oltre un miliardo, all’epoca, sei anni fa, venne registrato come il miglior incasso mai raggiunto da un film di Tim Burton. La battuta viene pronunciata dall’unico personaggio che si salva dell’intera operazione, una raffigurazione antropomorfizzata del Tempo, interpretato da un ottimo Sacha Baron Cohen, lasciatosi alle spalle le scurrilità narcisistiche di Borat.
Mentre il primo capitolo diretto da Burton durava 100 minuti escludendo i titoli di coda, questo secondo episodio delle avventure di Alice arriva a 113 minuti: si tratta di soli 10 minuti in più escludendo quasi 10 minuti canonici per i titoli di coda. La palla passa a James Bobin dopo il rifiuto del creatore di Edward Scissorhands, impegnato nella lavorazione del suo nuovo film, La casa per bambini speciali di Miss Peregrine (Miss Peregrine’s Home for Peculiar Children) in arrivo il 15 dicembre sugli schermi italiani, con Eva Green e Asa Butterfield. Bobin viene, tanto per intenderci, da casa Muppet e il suo “stile” di regia di riduce al lavoro di yes man della Disney, come accadde al Robert Stromberg cui venne affidata la regia di Maleficent (2014). Forse Alice Through The Looking Glass non ha l’antipatia del fantasy con Angelina Jolie, questo solo grazie allo stile friendly di Mia Wasikowska e ad un Johnny Depp ormai maniera di se stesso, talmente poco sopportabile da far riportare alla mente l’attore che negli anni ’90 aveva stupito con le performance di Dead Man, Fear and Loathing in Las Vegas e The Ninth Gate.
Il tempo passa per tutti e di Depp rimane solo la sagoma imbronciata di un clown che non fa più ridere. In fondo il personaggio del Mad Hatter di questo nuovo franchise su Alice offre un parallelo con l’altrettanto vanesio e irritante personaggio di Jack Sparrow nel franchise dei Pirati, certamente a tutt’oggi rimane una delle cose peggiori della Hollywood degli anni ’00. A Johnny Depp di Jack Sparrow e del Mad Hatter manca completamente lo stile unico e impeccabile del Robert Downey Jr. di Tony Stark e del Sherlock Holmes di Guy Ritchie. Downey Jr. si è salvato la carriera con i franchise, Depp ha raggiunto il punto di non ritorno della sua carriera iper-manierista. Chissà che non arrivi una nuova sfida letteraria a fargli cambiare passo.
Ma Alice Through The Looking Glass è soprattutto un film pensato per le famiglie. Il “bottino” al box office deve essere portato a casa e la nuova storia costruita per il seguito segue una logica narrativa del tutto ferrea: Alice torna da un faticoso viaggio per i mari con la sua barca, dopo aver sfidato il mare in tempesta, quando torna si trova ad essere ricattata dal proprietario della barca, va ad un ricevimento con l’intento di rimediare un contratto favorevole ma si ritrova per caso rinchiusa dentro una stanza seguendo il brucaliffo e precipita da una porta dopo aver attraversato uno specchio magico. Una volta tornata nel paese delle meraviglie, scopre che il Capellaio Matto è depresso perché non può più rivedere la sua famiglia, quindi va dal Signore del Tempo, ruba la crono sfera e tornando indietro nelle stazioni temporali scopre che i genitori del Cappellaio non sono morti, sono solo tenuti rinchiusi dalla Regina di Cuori con un perfido incantesimo.
La proliferazione visivo-narrativa di questa nuova Alice porta nuovamente al surplus di tecnica. Basta vedere i titoli di coda per capire che qua siamo un puro cinema della visione e del visivo. Il campo percettivo viene invaso dalla oltre-visione, la mdp può fare tutto, non si lascia sfuggire nessuno orpello. Il film non è né bello né brutto, bensì intrattenimento edificante, con una punta di anarchia punk, data dal personaggio di Cohen. Di conseguenza, è inutile lamentarsi se mancano i presupposti favolistici dell’Alice di Svankmajer del 1988, basato su un budget all’osso e su una lunghezza di appena 86 minuti. Erano altri tempi, non si può chiedere al colosso Disney un piccolo film così, ne vale del suo status di company imperialista, che tutto deve fare per vendere il suo marchio. Anche a costo di far lavorare un esercito di tecnici che paradossalmente arrivano a produrre un valore aggiunto pari allo zero.