Avatar di James Cameron è il cinema del nuovo vedere, è l’annientamento dell’interfaccia immagine/occhio, è la sensazione della cine-apnea, l’esperienza dell’immaginario-corollario, il visivo come campo di applicazione ermenuetica della forma intesa come sostanza di un discorso in divenire.
Come in Aliens, The abyss, Titanic Cameron elabora il suo linguaggio come se lavorasse agli albori della settima arte. Il suo cinema impiega la struttura classica per costruire epitomi di modernità. In questo caso si ha un film western, con i militari-cowboy e i Na’Vi-indiani, l’albero delle anime come mito della frontiera da difendere e a cui arrivare, il raggiungimento di uno status spirituale “altro” e divino a cui il protagonista deve accedere per acquistare il lato nascosto del proprio essere e la battaglia contro i tiranni colonialisti del pianeta terra.
Cameron sceglie per raccontare tutto ciò lo stesso stile hawksiano su cui si basavano anche Aliens e Titanic. La semplicità del suo tocco registico è direttamente proporzionale alla complessità immaginifica del suo sogno utopico di cinema. In Cameron l’Utopia diventa punto concentrico di forme e di ellissi, ogni atomo di Avatar è costituito di una forza granitica impareggiabile. Questo è un cinema inscalfibile e sovrano, un’opera aurea e in piena sommossa estetica, un urlo tellurico dall’eco insormontabile. Cameron non faceva un film da 12 anni. E si vede.