Cinema strano, stranoide, marziano, wellesiano-meliesiano, Alice in Wonderland pare essere il degno compromesso effettuato da Tim Burton tra la sua personale visione di un universo visivo parallelo e le esigenze da blckbuster della Disney. Tim Burton lavora per la Disney, e questo è chiaro, lampante, non può permettersi di girare ogni volta opere come Ed Wood, Big Fish o Sweeney Todd, deve anche “lavorare” per l’industria.
Alice in Wonderland è il risultato della fusione di queste due diverse anime. L’impostazione è quella del film per famiglie che deve far fruttare al Box office un risultato non dissimile a quello di Pirati dei Caraibi 2 e 3, poi però Burton all’interno di questo blockbuster riesce ad immettere il germe della sua irriverenza stilistica. Così Alice in Wonderland è due film insieme: corpo a corpo del regista con l’immaginario carrolliano e spettacolo digitale stile Il Signore degli Anelli, con draghi che eruttano fiamme e scene d’azione calibrate come se ci si trovasse in un videogame. Ne viene fuori un prodotto ibrido, in cui Burton è libero di sfogare la propria furia iconoclasta, per poi tornare nei ranghi del divertissment per spettatori da blockbuster.
Le cose migliori vengono dalle scenografie e dal Helena Bonham-Carter, attrice che potrebbe interpretare qualsiasi ruolo senza il rischio di apparire ridicola (ma ne Il Pianeta delle scimmie per colpa dello script andò malissimo anche a lei), il resto è un ibrido di cose buone e meno buone, difficilmente scindibile. Se in Alice in Wonderland si può parlare di sperimentalismo è solo perchè il cinema di Tim Burton si colloca nell’attesa della proliferazione visiva di uno sguardo mai pago della propria effervescenza.
Alice in Wonderland quindi, non è un fallimento come Il Pianeta delle scimmie, ma non raggiunge la perfezione di Charlie and the chocolate factory per una differenza sostanziale nell’immaginario di partenza: Roal Dahl non è Lewis Carroll, le sue visioni non si devono mai scontrare con la contraddizione aperta del gioco linguistico. Tim Burton ha invece tentato questo scarto: un gioco di proliferazione linguistica avanzato, anche dal punto di vista del digitale, che in Alice in Wonderland trova un motivo di esercizio ludico tutt’altro che scontato.