Opera chiave, crocevia fondamentale del genere poliziesco e documento imprescindibile per riflettere su un decennio, Vivere e morire a Los Angeles è un cupo e pessimista noir metropolitano, che si nasconde dietro a una facciata da buddy movie, una colonna sonora dei Wang Chung tipicamente eighties, scanzonata e spensierata, e titoli di testa colorati e accesi, pienamente in sintonia con quello che era “lo spirito dei tempi” ma in antitesi con il vorticoso ritratto di una malavita losangelina spietata e violenta e con quello di una coppia di poliziotti che più si avvicina al proprio obiettivo, e più si avvicina alla morte. William Friedkin girò uno dei suoi capolavori, a basso budget (la produzione passò dalla 20th Century Fox alla Mgm in modo improvviso) ma facendone di necessità virtù: tutto il cast e tutta la troupe furono ingaggiati a costi decisamente non elevati, ma tutti si adoperarono al meglio delle loro possibilità, dall’apporto fondamentale della fotografia di Bobby Muller fino alla scenografia di Lilly Kilvert.
Fin dalla prima scena, il film non si dimentica per impatto e forza espressiva. Howard Hawks confidò allo stesso Friedkin che si diventa davvero grandi registi quando si è in grado di girare buoni inseguimenti, e il regista di L’esorcista apprese immediatamente la lezione: Vivere e morire a Los Angeles si distingue per uno dei più eccitanti e tecnicamente complessi “car chase” che si siano mai visti al cinema, caratterizzato da tagli velocissimi e da adrenaliniche soggettive. Oltretutto, l’automobile che lo spettatore vede finire contromano, in realtà, percorre la strada nel giusto verso, a differenza di tutte le altre macchine che, invece, corrono al contrario. Questo accorgimento fu voluto fortemente da Friedkin perché si avvertisse in maniera ancora più angosciosa e oppressiva la sequenza di auto che si susseguono in direzione opposta a quella dei protagonisti. Ancora oggi, questo inseguimento non perde un briciolo della sua dirompenza, senza sfigurare se messo al fianco delle adrenaliniche e vertiginose riprese dei vari Fast and Furious.
Eccellente la prova della coppia William Petersen e John Pankow, inquietante quella del villain Willem Dafoe, ma a rendere indimenticabile questa pellicola è una Los Angeles mai vista prima così nevrotica e schizzata, divisa tra il culto della forma fisica e della superficie e lo spettro della denaro, della violenza e dell’autodistruzione. A tal proposito, deve essere posto l’accento sulla scelta di Friedkin di riprenderla spesso al tramonto, evidenziando la sua ingannevole bellezza che pian piano si spinge verso l’oscurità. Dopotutto, lo stesso personaggio interpretato da Willem Dafoe è un falsario e questa falsità, questo mito dell’apparenza è il vero centro nevralgico di un’opera, che è lo specchio fedele di un’epoca nella quale vivere è sembrato facile fino al momento in cui non si è dovuto fare i conti con la fine dei sogni e delle possibilità. Vivere e morire a Los Angeles è la corsa non curante di chi ha abbattuto ogni limite di velocità ma non ha avuto nemmeno il tempo di pagarne le conseguenze.