Non è facile trovare un altro regista capace, nel bene e nel male, di mantenere continuamente in bilico la visione, il giudizio estetico, il coinvolgimento emotivo come Joe Dante. Non è affatto compito da poco sapere districarsi nella costante ambiguità tra diversi registri, in un equilibrio precario tra l’horror puro e la cinica parodia che il regista di Gremlins ha fatto, tra alti e bassi, suo marchio di fabbrica, sorprendendo, spiazzando, deludendo.
É proprio questa inalienabile cifra stilistica che pare paradossalmente venire meno in uno degli ultimi lavori del cineasta formatosi nella “mostruosa” fucina di Roger Corman. The Hole in 3D si presenta infatti come la più classica (per non dire banale) delle storie di presenze e case infestate. Nella vicenda di tre ragazzi che scoprono una sorta di passaggio, un oscuro pozzo senza fondo né storia nel proprio seminterrato, capace di materializzare le loro più recondite paure, c’è infatti tutto quello che serve per una storia senza pretese nella sua più schematica semplicità, totalmente (o quasi) scevra di quell’ironia divertita, se non sghignazzante, tipica di altri titoli della filmografia dell’autore.
Accantonati dunque i risvolti cinico-citazionisti così come quelli satirico-politici degli ultimi, brillanti lavori quali La seconda guerra civile americana (1997) e i due episodi per la serie tv Masters of Horror (2005-2006), Dante non va però incoscientemente allo sbaraglio con un film dallo spessore (innegabilmente) più esiguo delle sue opere maggiori, bensì, servendosi di questa nuova, estrema semplicità, ritorna alla visione di quel romantico (o, se si vuole, nostalgico) del cinema quale, infondo, è ed è sempre stato. Alla maniera del suo Lawrence Woolsey, inventivo e folle produttore nell’originale commedia Matinee (1993), omaggio al mondo dei b-movies e al cinema stesso, Dante punta il suo occhio di artigiano sognante al di là dello schermo, ancora una volta (forse fuori tempo massimo) alla platea.
Ecco che allora il 3D acquista un’importanza fondamentale, ben al di là di un semplice uniformarsi a una moda del momento. Quasi fosse una trovata degna del più inventivo “rumble-rama” o della fantascientifica “atom vision”, fiori all’occhiello dell’imprenditore interpretato da John Goodman, il 3D si fa allora esperienza, viaggio emotivo e pregnante, medicina fantastica e spettacolare contro gli orrori della quotidianità, tanto quanto lo speculare racconto di formazione che caratterizza la diegesi filmica si fa viaggio di liberazione dalle paure e dalle brutture di un’infanzia solo abbozzata ma non per questo meno autentica. Per dar vita a questo racconto di e per ragazzi (un registro a lui non estraneo se si pensa a Small Soldiers e, volendo, allo stesso Gremlins), a questi “piccoli brividi” di celluloide, Dante, certo con più discrezione e minore ispirazione, sfoggia gli attrezzi del suo quarantennale mestiere, dall’omaggio citazionista ai classici del genere (da Poltergeist a The Ring) a una notevole ricercatezza estetica attraverso trovate registiche capaci di sfociare in un epilogo dal gusto puramente espressionista.
Dai risvolti di una storia semplice nella sua mediocrità (sebbene raccontata con affermata maestria), contornata dall’uso di un 3D mai pienamente coinvolgente, ecco emergere in controluce allora una ragionata parabola per famiglie sull’origine dei mostri, dell’orrore, del male, e, insieme, un (disperato? Ingenuo? Fallimentare?) tentativo di trasformare il cinema stesso in quell’oscuro antro di paure, in quel magico abisso in grado di catturarci, calandoci tra i suoi (i nostri) mostri per poterli, infine, esorcizzare.