Presentato in anteprima mondiale al Festival di Toronto 2013, al Festival di Sitges (Festival Internacional de Cinema Fantàstic de Catalunya) e poi a Roma, l’ultimo film di Eli Roth, The Green Inferno arriva solo ora nelle sale dopo essere sparito a causa di un’esigua promozione della WorldView Entertainment. Il film di Roth è denso di rimandi. Le influenze del cinema di Tarantino, di certo cinema horror anni ‘80, in particolare quello italiano dei cannibal movie. Da qui nasce il tributo per Cannibal Holocaust di Deodato senza dimenticare Cannibal Ferox di Ruggero, La montagna del Dio cannibale (Sergio Martino) e Ultimo Mondo Cannibale (Deodato). “Era un tipo di cinema che sentivo perso, fatto da persone folli”, ha dichiarato Roth in un’intervista pubblicata su Bestmovie.it. La caratteristica di quei registi italiani che tanto ispirano Roth, era “un’energia senza regole, anarchica”, ha sottolineato il regista.
Lo stile di Deodato era caratterizzato da una compostezza, da un eclettismo, determinato da una costruzione filmica ricca di spunti innovativi, tanto rari in molti film dell’horror di oggi, eppure il feroce sensazionalismo cui ricorre, il sadismo sotteso all’intera pellicola getta le basi del mockumentary e di quel found footage simulato che ha dato creativi spunti all’ultimo quindicennio di horror. Simulazione: potremmo definire così il Found Footage. Ricostruzione di una realtà. In Hannibal holocaust era evidente la sua doppia natura filmica: raffigurazione della realtà e macabra esibizione della stessa. Così si alternano interviste, nastri su cui erano incise quelle realtà, le più orrorifiche, che davano modo di credere di assistere ad una continua esibizione di scatole cinesi. Ogni scatola conteneva una realtà più spaventosa, più folle dell’altra.
Nei primi anni duemila, dopo Scream (Wes Craven,1996), The Ring ( Hideo Nakata, 1998) e The Blair Witch Project in particolare, l’horror predilige un’estetica più spaventosamente reale, in cui massacri cruenti ed inimmaginabili squartamenti, spingono una serie di registi a virare rotta. Su tutti, James Wan, con Saw – L’enigmista (2004) inaugura il filone delle torture, poi prosegue lo stesso Eli Roth in Hostel (2005), fino al suo tributo al cannibal movie tutto italiano, sottogenere all’epoca particolarmente in voga. Roth, compie scelte spettacolari, selvagge, irriverenti e grandiosamente splatter in cui il trucco scenografico si mostra in tutta la sua magnificenza ma non è sadicamente feroce come il suo referente. Non ha la morbosità del suo nume, attinge alla dimensione macabra del cannibal movie ma si spinge oltre, portando in scena situazioni grottesche, con la mdp che indugia su vittime e carnefici, tanto da entrare in empatia con gli uni e gli altri, laddove, invece, il suo antesignano Deodato riprendeva barbare uccisioni su animali, non solo dal vero, ma mettendo lo spettatore nella posizione di rimanere atterrito, sconvolto ed immobile di fronte alla spietata oggettività della rappresentazione.
Viene in mente Jacques Rivette quando si riferì al famoso carrello di Kapò di Pontecorvo definendo certe immagini “moralmente abiette” e dunque non mostrabili. Non si indugia sui corpi straziati, non se ne mostra il sangue o le viscere, equivarrebbe a prendere parte alla sua barbara uccisione. Di tutto questo in The Green Inferno (Roth sceglie il sottotitolo del film Hannibal Holocaust) non c’è traccia se non l’eco silenziosa: un impatto scioccante, selvaggio, a tratti però scherzoso, perché ogni climax viene portato alla sua esasperazione, così da rendere grottesche determinate scelte stilistiche. L’indugiare delle lame sulla pelle, i primi piani di visi truccati da mostri delle tenebre o rituali in cui corpi rossi emulano la loro brama di sangue e carne. Un film in cui si assiste ad una dirompente scenografia del terrore in pieno stile, macabra, scioccante eppure come lui stesso ricorda: “un trucco di magia”.