Bill è un ragazzo di Los Angeles che fa degli strani incubi ad occhi aperti. Un giorno viene inviato ad un party che farà luce sui suoi sospetti.
Diretto da: Brian Yuzna
Genere: horror
Durata: 99'
Con: Billy Warlock, Devin DeVasquez
Paese: USA
Anno: 1989
Opera prima del regista Brian Yuzna, Society – The Horror è un debutto di straripante fantasia, gagliardamente scorretto e privo d’inibizione.
L’esplosione, inattesa, della verve corrosiva del futuro regista di cult come Re-animator 2, The Dentist, Il ritorno dei morti viventi 3, colpisce con immaginazione sfrenata un obiettivo concreto, sia pure secondo un intento sociologico un po’ qualunquistico: l’alta borghesia statunitense, tratteggiata all’insegna di un’orrenda untuosità e di un tentacolare potere oscuro.
Il giovane Bill Whitney (Billy Warlock) appartiene ad una famiglia di ricconi di Beverly Hills, ma non pare godersi troppo la vita. Il suo disagio è alimentato da strane visioni e da una sorta di terrore nei confronti dei propri familiari, che sospetta far parte di un clan molto esclusivo dedito a riti orgiastici e nefandezze non meglio identificate.
Bill viene scambiato per pazzo, ma la società di mutanti cannibali, che punta al controllo dello Stato americano, è una realtà anche peggiore dei suoi incubi. Per almeno due terzi, Society è un horror piuttosto banale, formato serie televisiva, con un cast appena sufficiente, approssimazioni della sceneggiatura e nemmeno troppo ritmo.
È però chiaro sin dall’inizio il tentativo da parte del regista di seminare tracce di un orrore strisciante, d’insinuare bug in una costruzione che ambisce a far sembrare il contesto di Bill soffocante ed untuoso: non conta se lo sia davvero, o se risulti tale solo per le paranoie del protagonista. Per larghi tratti, dunque, il film tiene l’andamento di un thriller psicologico sicuramente morboso, e dall’aria malvagia pronta a spirare alle prime forzature narrative.
Così accade, di fatto, quando la “società segreta” rivela il proprio volto – o meglio, il proprio corpo. Non si tratta di sapere chi vinca o chi perda nella distopia dell’orrore: lo spettacolo visivo dell’ultima parte è di una maestria impareggiabile, generativa, con immagini e trovate che traducono la repellenza ideologica in un grandguignol di lipidi disfatti.
Il mostruoso convitto finale, una trovata di fantascienza splatter, s’impone per l’immane capacità astrattiva, visionaria, non priva di sottolineature ironiche tutt’altro che sterili: espressioni come “Ma come, non lo sai? Da sempre i ricchi mangiano la merda dei poveri!” sono battute la cui incisività consiste nell’essere letterali e fisiche, nonostante suonino come delle metafore.
La classe dominante è così dilagantemente clownesca proprio per quell’autocompiacimento e quel senso d’intoccabilità dei potenti: l’humour nero è fatto intelligentemente puzzare d’impunità. Più o meno mettendo Cronenberg nel frullatore, Yuzna compone un affresco lovecraftiano, ma ridotto a vignetta da Ghostbusters animato, in cui i corpi si fondono su suture bavose, umidicci, gelatinosi, ma soprattutto intenzionati a fagocitare tutti quelli estranei alle regole.
È una forma di simbiosi, di solidarietà nera, che diventa cannibalismo. E sempre a proposito di Cronenberg, sei anni prima in Videodrome si era vista una scena in cui James Woods immergeva la mano nel proprio ventre per mettervi una pistola, e poi recuperarla nell’ultima parte, fondendo l’arto con l’arma.
Questa plasticità malata si rinviene anche nel film di Yuzna, con mani che escono dalla bocca, contorsioni di carne floscia, mutazioni interne come di una plastilina cartilaginosa. Senza contare, peraltro, che nel film del regista canadese sussisteva una critica non meno aggressiva e allucinata nei confronti di un potere oscuro, in quel caso i mass media.
Decisivo, nel contribuire al campionario di disgustose bavosità, è il truccatore Screaming Mad George (Predator, Nightmare 4, The Dentist 2), un vasaio manipolatore di carni geniale senza il tornio di computer graphic.
Dal canto suo, Yuzna si scaglia contro l’alta società secondo un disegno narrativo isolante, che finisce per genere l’accerchiamento di Bill.
È quest’ultimo ad apparire come il disturbato, il non-allineato, specie quando al banchetto in suo (dis)onore viene additato come appartenente ad una razza diversa, mentre la viscida comunanza dei dis-umani garantisce ad ogni membro agio e piacere.
Che la facciata di una classe tanto compatta quanto subdola si avvalga di un’immagine gradevole, è d’altronde mostrato anche da un personaggio chiamato per lo più a “caratterizzare”, ma con una funzione essenziale in un contesto in cui i corpi sono importanti: si tratta di Clarice, la nuova fiamma di Bill, interpretata dalla playmate Devin DeVasquez.
La sua apparenza da favola la rende adescante, con quelle curve da sogno che in alcune allucinazioni di Bill diventano da incubo; ma quello che il ragazzo cerca è piuttosto un senso, spontaneo, dei rapporti sociali, e prima di tutto umani.
Anche quelle sembianze, dunque, sono fatte scivolare in un baratro insano, regolato da metabolismi puramente materiali, intrinsecamente perversi: la sessualità incestuosa di cui Bill sospetta la propria famiglia è il sintomo di un albero malato alla radice, nel suo primo germe sociale, quello, appunto familiare.
Una disintegrazione così profonda che il singolo, atomizzato rispetto alle sconce aggregazioni molecolari di un mondo di mostri, finisce per muoversi sul pericoloso crinale dell’alienazione mentale (Bill assume farmaci e va da uno psichiatra): assunta, a buon profitto, dallo sguardo lucidamente ossessionato di Yuzna.
Questa famiglia si commenterebbe bene con la copertina di un album di Marilyn Manson, che tra l’altro, nei testi, è intriso di riferimenti alla cultura americana mediante citazioni cinematografiche (Poltergeist II – L’altra dimensione, I segreti di Twin Peaks, Fenicotteri rosa, Ultimo tango a Parigi). Si tratta di Portrait of an American Family del 1994, che significativamente Rolling Stone commentò come segue: “Il debutto di Marilyn Manson, ‘Portrait of an American Family’, supervisionato da Trent Reznor dei Nine Inch Nails, non è la spinosa critica culturale all’America che lui vorrebbe che voi pensiate. La maggior parte del materiale viene fuori da qualche film horror low-budget”. Come se gli horror low-budget non avessero nulla da dire…