Il cinema di George A. Romero non ha prodotto solo la saga dei morti viventi. Dal primo film della serie del 1968 Romero arriverà allo zenith del suo cinema solo nel 1988 con l’adattamento del romanzo di Stephen King, Monkey Shines Esperimento nel terrore. Le consuetudini post-visione che faranno del film di Romero un cult nei decenni a venire, sono da ricercare anche nel profondo stato di crisi in cui versa il genere da ormai più di un decennio. Poche sono state le gemme di genere negli ultimi 15 anni, forse solo The Descent Discesa nelle tenebre (2005) di Neil Marshall si salva dall’anonimato.
Moneky Shines appartiene ad un altro tempo, in cui la semplicità di una storia portava lo spettatore verso la fruizione di thriller psicologici dove il genere veniva ribaltato pur rispettandone la struttura. Romero usò la trama scarna del rapporto tra un paraplegico e una scimmietta per aprire il genere all’universo incantato al mélo di una visione allucinata e distorta. Quello che rappresentò Moneky Shines per il decennio degli anni ’80 è paragonabile a quello che è stato Il seme della follia (1994) di John Carpenter negli anni ’90: il canto del cigno di una poetica in via d’estinzione.
L’horror di Romero è tutto nello sguardo dolce e curioso della scimmietta drogata, un personaggio straordinario che mette a tacere tutte le voci che hanno etichettato l’autore della saga dei morti viventi come un regista monocolore e senza un punto di vista equilibrato. L’artiglieria romeriana in Monkey Shines è un’estetica basata sulla meraviglia del corpo nudo di immagini che sprizzano sete di conoscenza da tutti i pori. Non c’è pietà o esuberanza visiva dello splatter in Romero, in nessuna delle scene degli omicidi si vedrà mai una testa che rotola o un bagno di sangue. Lo stile di Romero diventerà ridondante solo dopo, nel pur buono La metà oscura, nel fin troppo valutato le cronache dei morti viventi (Diary of the Dead, 2007), dove il regista ha dimostrato di interessarsi ai problemi dell’utilizzo delle telecamere digitali, così facendo abbassandosi alla retorica dei Redacted (2007) sul cinema finto/vero, come se ce ne fosse veramente bisogno.
No. Monkey Shines andò in tutt’altra direzione, a Romero il conflitto tra immaginari digitali e analogici ha interessato solo quando non ha più avuto nulla da dire, come succede purtroppo a quei registi che si rifugiano nel metacinema quando le potenzialità dello storyteling sono state tutte ormai già tutte sfruttate. Con questo horror dal budget contenuto e un cast all’altezza su cui spicca lo scienziato pazzo John Pankow quello che rimane è un sottile strato di tenero mistero, per una vicenda tanto empatica da apparire verosimile, ma senza mai abbassarsi alla retorica del realismo. Per chi volesse avere un altro esempio di cosa l’horror sia diventato oggi, basta guardarsi un videogioco come Oculus, pura scemenza per allocchi. Romero faceva volare la mdp anche da ferma, si stabilizzava sui volti di attori scimmieschi per far trasalire la folle malinconia di un mondo ancora tutto da scoprire. Ne avremo altri di simili midnight cult adatti a tutte le generazioni?