In un Paese della Lucania una fattucchiera viene accusata dell'assassinio di tre ragazzini.
Diretto da: Lucio Fulci
Genere: horror
Durata: 110'
Con: Florinda Bolkan, Tomas Milian
Paese: ITA
Anno: 1972
Non si sevizia un paperino (1972) di Lucio Fulci è un film drammaticamente significativo per diverse ragioni: era uno dei film preferiti del regista; si distingueva per scelte innovative e sconvolgenti all’epoca, sia rispetto all’immaginario del thriller all’italiana (è ambientato in un paesino del Sud, retrogrado per quanto lambito dall’autostrada), sia rispetto alla sensibilità spettatoriale (tratta di una scabrosa serie di omicidi a danno di bambini); è accreditato come il primo film prodotto dalla Medusa.
A Bitonto, tra il ’71 ed il ’72, nell’arco di pochi mesi cinque bambini erano stati trovati annegati in una cisterna di un quartiere abitato per lo più da straccivendoli. Traendone partito con libera morbosità, Fulci ambienta una situazione analoga in Lucania, nel paese immaginario di Accendura, scioccato dalle crudeli uccisioni di tre bambini.
Un giornalista in vacanza, Andrea Martelli (Tomas Milian), indaga in parallelo con i carabinieri, barcamenandosi tra intrighi di cortile, false piste, intrecci di superstizione e religione, paperini ammazzati o reticenti e donne sospette. In particolare, Barbara (Barbara Bouchet), una ricca borghese da poco giunta in città per disintossicarsi dalla droga, e la “maciara” (Florinda Bolkan), una strega del villaggio, insana mentalmente, che riconosce la propria colpa. Che, però, non è legalmente soggetta ad imputazione: avrebbe compiuto un sortilegio…
Associato al giallo, ma soprattutto all’horror, Lucio Fulci è un regista di cui è ampiamente riconosciuto, e con lode, l’eclettismo: dalle commedie, sexy e non, ai musicarelli; dagli spaghetti western, ai fantasy post-atomici. Un “terrorista dei generi”, come ebbe a definirsi.
Non si sevizia un paperino è un esempio significativo di “eclettismo interno”, ossia di come un genere non sia assunto come una gabbia, bensì di sistema espressivo passibile di sfilacciarsi, ibridarsi, tendersi nel nodo stringente di scelte di stile e di contenuto.
Una scena che potremmo definire di “seduzione pedofila”, con Barbara che, completamente nuda, conturba e provoca il giovane Michele, è in questo senso emblematica: esprimere, di fatto, l’audacia creativa con cui la vena erotica del film si commistiona a quella orrorifica, in un clima egualmente “malato”.
Si tratta di una scena che, salvo per il coinvolgimento di un bambino, si direbbe disinvoltamente saccheggiata al filone erotico. Il senso della proibizione, della scorrettezza morale, del pericolo incombente, ricontestualizzati in un thriller, ne fanno invece una sequenza di malia stregonesca, di bellezza marcia, di abbordaggio decadente e mortale.
È, in qualche modo, una sequenza metafisica, in cui il corpo della Bouchet affiora dall’ombra, come l’immaginazione precoce di un fanciullo che si faccia carne: le inquadrature sono isolanti, quel corpo diventa una bambolina da sexy vodoo, armamentario del thanatos non meno che i pupazzi sfregiati che fanno capolino a più riprese nelle inquadrature dei riti di magia nera.
Sul crinale tra thriller ed horror, probabilmente, si realizza il più pericolante equilibrismo creativo del film. La scelta dell’ambientazione lucana viene valorizzata sia dal punto di vista del significato che da quello dell’immagine.
Nel paesino, raccolto ma retrivo, in cui la religione ammette che compaiano streghe e figli del diavolo dai buchi neri della superstizione, la sessualità ai primi bollori degli adolescenti finisce per diventare una sorta di colpa da espiare: il prete lamenta la diffusione delle riviste pornografiche, Barbara è la vamp di città venuta ad inquietare ormoni ed animi, la “maciara”, colpevole d’incesto, è l’oggetto di un rito sacrificale, una purga sociale che si chiama “linciaggio”.
Alla luce del sole, la magnifica fotografia (Sergio D’Offizi) rende abbacinante il vilaggio assolato, tutto di sassi bianchi come il manto della Vergine; negli interni, nelle stanze scure, nei notturni autostradali o boschivi, si percepisce l’eclissi della ragione, il clima greve ed opprimente dell’angustia mentale, l’angoscia dei Rosari.
Se la scena cult è quella della lapidazione di Florinda Bolkan, lo scatto visivo più terebrante è nel passaggio tra l’incenso velenoso della chiesa, dove durante i funerali la madre addolorata avverte la presenza dell’assassino, e l’uscita della “maciara” dalla chiesa, minacciosamente inquadrata dall’alto nella solitudine candida ed inquietante del paese svuotato.
Il cast, infine, supporta: se Tomas Milian è forse poco trucido e piuttosto compassato, Barbara Bouchet, con due gambe che uccidono, è di una bellezza viperina; Florinda Bolkan, poi, si rende protagonista di una sofferta e credibile maledizione, mentre Irene Papas resta un po’ sulle sue, come una vedova in ritiro.
Le musiche di Riz Ortolani, ancora, commentano con romantico sadismo pre-tarantiniano le scene più truculente: un agrodolce sinestetico (musica vellutata su immagini forti) che rielaborerà in un altro cult, Cannibal Holocaust (1980) di Ruggero Deodato.
Eros e thanatos, bianco e nero, razionalità e magia sono, dunque, altrettanti binomi di un film in cui il ricorso occasionale, ma incisivo, allo splatter, ed il sottofondo di alterata sessualità assurgono a “sevizie” necessarie per scardinare il confine del genere, all’insegna di un unico “to thrill”, rabbrividire.