Il film di Lenzi viene infatti considerato uno zombie movie, pur non presentando dei veri e propri morti viventi; è persino annoverato tra i precursori di 28 giorni dopo di Danny Boyle, per l’aggressiva velocità dei para-zombie, ma in realtà il suo nipote più prossimo è Planet Terror di Robert Rodriguez; è insieme uno degli horror italiani dal make up più dozzinale, eppure anche tra i più originale; più che un b-cult, sembra un parente povero di Romero, che saccheggia soprattutto da La città verrà distrutta all’alba (ma anche da La notte dei morti viventi: vedasi la scena della cantina), eppure è uno di quei parenti goffi, chiassosi e simpatici, poiché la sua miscela di horror ed action movie, per quanto derivativa, riesce peculiarmente gustosa.
Le forze armate, in subbuglio, affermano che il loro morso è contagioso. L’infezione si allarga, i pochi a conoscenza del dramma cercano di raggiungere i propri cari. Che, intanto, devono nascondersi per sopravvivere. Tra i massimi esponenti del poliziottesco (suoi sono classici come Roma a mano armata e La banda del gobbo), quando si cimenta nell’horror (Cannibal Ferox, La casa 3) Umberto Lenzi produce risultati di indubbio interesse: garantisce Quentin Tarantino, che ha pubblicamente espresso a più riprese il gradimento per Incubo sulla città contaminata.
Da un lato, questa strategia, per la quale il tirocinio nel poliziesco all’italiana deve essere stata corroborante, dà luogo ad un’appassionante indeterminatezza bellica, con attacchi a postazioni come ospedali e case, in cui, poi, gli scontri fisici sono più memorabili rispetto alle degustazioni di carne tout court degli zombi classici: televisori lanciati come fossero granate esplosive da una parte, fucilate che fanno saltare teste dall’altra (per l’esattezza, ad una giovanissima Maria Rosaria Omaggio); chirurghi che lanciano bisturi come lanciatori di coltelli per uno schieramento, mani contaminate ma con lame al contagiro che amputano seni per l’altro.
Per un film prodotto in tempi di guerra fredda, il quadro catastrofico sembra incorniciato se non da un messaggio politico, quantomeno da un’antipatia qualunquista per la corsa agli armamenti e per le derive della scienza al servizio dei war pigs di turno.
Per quanto spoilerante, è intenibile la necessità di chi scrive di sottolineare la goffa sproporzione tra cotanto predicozzo ed il volteggiare, nel vuoto, del manichino – e si vede davvero tanto che sia un manichino – che riproduce il corpo di Ann, la cui tentata fuga in elicottero finisce tragicamente. Seminare, cioè, spunti di Marcuse in mezzo alle purulente maschere di gomma dai bozzi di ketchup, è l’epitome del cult involontario.