Sarah Cassidy e sua figlia si trasferiscono in una casa dove, quattro anni prima, un'adolescente aveva ucciso i genitori. Il figlio della coppia assassinata, Ryan, vive nella casa. Quest'ultimo conosce l'orribile segreto della casa.
Diretto da: Mark Tonderai
Genere: horror
Durata: 101'
Con: Jennifer Lawrence, Elisabeth Shue
Paese: USA, CAN
Anno: 2012
Indovina chi viene a cena: in Hates – House at the end of the street è il giovane vicino, Ryan (Max Thieriot), la cui erba non è più verde, bensì più rossa, perché anni prima la sorellina aveva trucidato i genitori, per poi sparire nel nulla – si era appreso dall’allucinato incipit.
L’invito proviene da Sarah Cassidy (Elisabeth Shue) , divorziata e da poco trasferita a Chicago – prezzi stracciati, visto l’inquietante vicinato – insieme alla figlia Elissa (Jennifer Lawrence).
L’invito proviene da Sarah Cassidy (Elisabeth Shue) , divorziata e da poco trasferita a Chicago – prezzi stracciati, visto l’inquietante vicinato – insieme alla figlia Elissa (Jennifer Lawrence).
Il fatto è che la cenetta è una manovra della madre per tenere d’occhio la recente frequentazione della figlia: considerata la fama da cronaca nera di Ryan. La relazione tra i due adolescenti è osteggiata dall’ansiosa genitrice, ma Sarah pare apprezzare la sensibilità del ragazzo. Meno, invece, qualche segreto che verrà fuori.
Hates – House at the end of the street ha il sapore di Wes Craven nel titolo – deja-vu verbale con L’ultima casa a sinistra – ma delude con una condotta piuttosto scipita. Il gusto che spicca è quello acerbo della regia di Mark Tonderai, ex disc jockey e scrittore che non disdegna incursioni nel cinema, a quanto pare nel thriller psicologico (vedasi, se se ne ha il coraggio, Hush, del 2009). E trattasi davvero di immaturità – si spera: se non di mancanza di stile.
Vien da dirlo a considerare tutti quei tratti di tipica muscolarità giovanile con cui i directors rampanti tendono ad esibire un “saper fare” poco funzionale al racconto: una marea di fuori fuoco, virate fotografiche dal caldo al freddo (le tonalità bluastre sono usate per i flashback e per le scene nel bosco), clamorose serpentine in piano sequenza che macinano metri nello stesso ambiente, arrotandosi attorno ad uno stipite o aggirando una finestra.
Hates – House at the end of the street ha il sapore di Wes Craven nel titolo – deja-vu verbale con L’ultima casa a sinistra – ma delude con una condotta piuttosto scipita. Il gusto che spicca è quello acerbo della regia di Mark Tonderai, ex disc jockey e scrittore che non disdegna incursioni nel cinema, a quanto pare nel thriller psicologico (vedasi, se se ne ha il coraggio, Hush, del 2009). E trattasi davvero di immaturità – si spera: se non di mancanza di stile.
Vien da dirlo a considerare tutti quei tratti di tipica muscolarità giovanile con cui i directors rampanti tendono ad esibire un “saper fare” poco funzionale al racconto: una marea di fuori fuoco, virate fotografiche dal caldo al freddo (le tonalità bluastre sono usate per i flashback e per le scene nel bosco), clamorose serpentine in piano sequenza che macinano metri nello stesso ambiente, arrotandosi attorno ad uno stipite o aggirando una finestra.
A un certo punto, viene persino da pensare alla platealità di una famosa e frustrante carrellata in Frenzy di Hitchcock, che prende per gli occhi lo spettatore e lo lascia sulla soglia della porta, chiusa, dietro la quale si consumerà un delitto. E lo si pensa non tanto per qualche altra performance vagamente hitchcockiana di Tonderai alla macchina da presa, quanto per l’umore da Psyco che attraversa tutto il film, e che sembra non svanire nemmeno quando arriverà il momento di tirare le somme.
House at the end of the street è un thriller in cui la morbosità si cova in famiglia, e lo spettatore è messo tempestivamente al corrente di fatti decisivi di cui, invece, la giovane e bamboleggiante Elissa non ha percezione: è il presupposto di una strategia della suspense, ossia di quella sensazione spettatoriale che non è fondata sulla sorpresa, sul whodunit (il dramma da chi l’ha ucciso?), quanto sull’attesa in divenire di fatti seguiti col fiato sospeso.
House at the end of the street è un thriller in cui la morbosità si cova in famiglia, e lo spettatore è messo tempestivamente al corrente di fatti decisivi di cui, invece, la giovane e bamboleggiante Elissa non ha percezione: è il presupposto di una strategia della suspense, ossia di quella sensazione spettatoriale che non è fondata sulla sorpresa, sul whodunit (il dramma da chi l’ha ucciso?), quanto sull’attesa in divenire di fatti seguiti col fiato sospeso.
Ecco, allora, profilarsi alcune situazioni – le migliori, anche se vecchissime – di inseguimento, scoperta imminente, corsa contro il tempo per non tenere nascoste le verità: minuti di suspense, in cui la macchina da presa bracca i personaggi nell’angustia di uno scantinato o nel labirinto domestico in penombra.
Se solo, rispettando l’anagrafe, Tonderai fosse davvero più british, questo regista, forse non assisteremmo a certe ricadute bislacche, tipo Jennifer Lawrence colta da un bollore adolescenziale che salta addosso a Ryan, o un collo spezzato per caso come un grissino, o uno scroscio di pioggia, dal nulla, che costringe Elissa ad accettare il passaggio dallo sconosciuto, e lo spettatore a pensare che su qualche chioma del viale alberato una massaia abbia rovesciato un secchio d’acqua. Passaggi frettolosi, che rovinano persino quell’accento da noir, più che da horror, facendone un teen noir: un genere che sarebbe un delitto far esistere.
Se solo, rispettando l’anagrafe, Tonderai fosse davvero più british, questo regista, forse non assisteremmo a certe ricadute bislacche, tipo Jennifer Lawrence colta da un bollore adolescenziale che salta addosso a Ryan, o un collo spezzato per caso come un grissino, o uno scroscio di pioggia, dal nulla, che costringe Elissa ad accettare il passaggio dallo sconosciuto, e lo spettatore a pensare che su qualche chioma del viale alberato una massaia abbia rovesciato un secchio d’acqua. Passaggi frettolosi, che rovinano persino quell’accento da noir, più che da horror, facendone un teen noir: un genere che sarebbe un delitto far esistere.
Ci si conceda la divagazione ormonale: ma Jennifer Lawrence è la prepotente attrattiva di House at the end of the street, che per larghi tratti vive solo del suo carismatico biondame, in altri vivacchia con qualche spunto “riciclato” di regia e infine muore con una sceneggiatura sciapa, che appiattisce sullo stesso piano il superpiedipiatti ed il killer, la cenerentola e la matrigna.
La suspense prova a rianimare con una siringa di adrenalina un dramma che è morto. Whodunit? Mark Tonderai.
La suspense prova a rianimare con una siringa di adrenalina un dramma che è morto. Whodunit? Mark Tonderai.