Alla fine il Magneto di Michael Fassbender capisce che tutto il dispositivo di autodistruzione che aveva creato per volontà di En Sabah Nur altro non era che la proiezione di un tormento cui la sua percezione non riusciva a dare un senso, quasi per voler esorcizzare la volontà stessa di predominio che quest’ultimo stava esercitando su tutti gli X-Men non ancora diventati tali. X-Men: Apocalypse è dunque un altro sequel mascherato da prequel, un altro episodio che si aggiunge agli altri. Dov’è il senso in un questa numerazione progressiva che continua a produrre simulacri uno dietro l’altro?
Idola, mitologie, preveggenze di una fantascienza/fantasy parcellizzata, ancorata ad una voglia di stupire che va sempre a braccetto con una straordinaria ironia di fondo, che consente all’intera operazione diretta da Bryan Singer, di non prendersi mai troppo sul serio e diventare pura e semplice macchina dell’avventura, costruita sulle solide basi di uno script e una regia che funzionano da operazioni elementari messe al servizio di un cast affiatato, che entra da subito in empatia con lo spettatore, dando l’impressione che lo straordinario sia solo una formula matematica da risolvere durante la visione del film.
Certo, Hollywood può contare sulla formidabile macchina da guerra di una produzione in grado di costruire e distruggere qualsiasi elemento fotografico, digitale, visivo, sonoro. La sensorialità di questo ultimo X-Men è collegata ai superpoteri di ogni mutante, ognuno dei quali ha un passato da cui sfugge. Una volta tanto la semplicità architettonica degli scenari emotivi in movimento porta alla costruzione di un dramma poliedrico che si avvicina alla classicità del fumetto senza passare per una qualsiasi autorializzazione del regista, Bryan Singer, autore 20 anni del grande I Soliti Sospetti e infine relegato alla stregua di regista da merchandising, che offre la sua arte all’industria, con il solo scopo di riempire le sale di giovani spettatori e le tasche dei produttori di milioni.
Le coreografie e le performance balistiche sono la prova che Hollywood più allenta il suo sguardo sulla realtà, e più immerge nella metafisica il portento di personaggi alteri, che partecipano alla serializzazione di un discorso in fieri sul destino della biomeccanica in termini binari. Il digitale in questo senso è un vettore strenuamente collegato ad un tessuto narrativo, che ogni volta deve replicare se stesso e disfarsi, come termine di paragone rispetto all’episodio precedente. Fermare il cinema, capovolgerlo, riattivarlo per farlo puoi di nuovo morire. E’ la mentalità applicata da Bryan Singer al frinchise degli X-Men, che si situa in Altrove cinematico/audiovisivo, pur venendo ogni volta scambiato per il tentativo da parte di Hollywood di rimandare la propria morte. L’immaginario cavalcava ancora inarrestabile.