C’è un hotel, in una regione sconosciuta della Terra, dove singoli individui hanno la possibilità, nel giro di 45 giorni o più in ossequio al rigido regolamento che vige, di rimpiazzare il proprio o la propria consorte non più in vita con un’altra persona assieme alla quale possano condividere una forma di “amore sincero”. Allo scadere del tempo concesso, se “non si trova”, si viene trasformati in un animale a scelta, avendo quindi in ogni caso una seconda chance per instaurare un rapporto con esseri della stessa specie.
E’ possibile che la presidenza a Cannes dei fratelli Coen, da sempre amanti delle atmosfere grottesche e dell’umorismo nero, abbia giovato al film del regista greco al punto di concedergli il Premio della Giuria. Fatto sta che The Lobster di Yorgis Lanthimos non brilla tanto da lasciare nel pubblico una traccia positiva durevole. L’idea in sé è realmente illuminata nella prima parte, originale a livello di soggetto, creativa (anche se non oltremodo) per quanto riguarda la sceneggiatura, costituita da una singolare condensazione di pensieri banali e dal profilo anonimo, col risultato di delineare situazioni incolori e imbarazzanti, personaggi palesemente sciancati, insensibili, o anche disperati e masochisti, pronti a perdere la dignità e l’onestà pur di salvare la propria vuota esistenza.
Simili disagi si possono facilmente riconoscere nei volti del numeroso iconico cast, in cui figurano il protagonista Colin Farrell, fastidiosamente posato secondo la volontà degli autori (il regista stesso e il suo fedele collaboratore Efthymis Filippou), la sua nuova sfortunata compagna Rachel Weisz, l’eterno debole John C. Reilly, la solitaria ed invidiosa Léa Seydoux, tutti in buona forma e costretti a toni sotto le righe. Va detto a tal segno che la cura di Lanthimos in questa “storia d’amore non convenzionale” è ammirevole quando destinata all’aspetto esteriore delle scene, negli interni come negli esterni, o a quello prettamente musicale, che lascia trasparire fra i nomi di Britten, Stravinskij, Cave o del Šostakovič del celebre Quartetto per archi No. 8, una sensibilità cosciente e preziosa.
Delude in riferimento agli zoppicanti sviluppi del secondo blocco narrativo, che nel loro sfiancante nichilismo “si scavano la tomba”, per riprendere un uso in voga presso la setta degli abitanti della foresta, finiscono per appesantire eccessivamente il mood della vicenda, invece di mantenere acuto e graffiante il ritratto di una società persa e proprio per questo motivo velata di sottile ironia, fin dalle locandine, in cui si abbraccia il nulla, o dal titolo emblematico, che ricorda agli spettatori un destino che forse sarebbe apparso perlomeno più apprezzabile e lecitamente intransigente nella sua piena realizzazione.
Qui potete trovare la video recensione di Raffaele Lazzaroni su The Lobster