Campione d’incassi ai botteghini coreani nel 2006, The Host di Bong Joon-ho non apparirebbe un campione d’originalità: ecco lo schermo bucato dall’ennesimo mostro marino, sorta di pesce-gatto gigante (made in Weta), sputato dal fiume Han (Seoul) anni dopo un massiccio sversamento di formaldeide, e copia sputata di qualche modesto esemplare recente che rinnova i fast – cioè la fattura veloce – dei b-movies degli anni ’50, con i loro ragni\granchi\locuste giganti. In realtà – anzi, nell’estremo della più artata e spettacolare finzione, il film risulta piuttosto la mutazione di generi e filoni sgorgata da qualche acidulo brodo creativo, in cui si mescolano horror e azione, tragedia e commedia, riflessione socio-politica ed impurissimo entertainment.
Tanto per cominciare, gli “incredibili” di turno, chiamanti a sventare la minaccia, sono dei perfetti anti-eroi, una famiglia di losers, presto bollati come “infettati” dal cocktail di batteri e virus di cui la mostruosa creatura sarebbe mortifero ospitante. Il nonno ed i tre figli adulti, tra cui il protagonista Gang-Doo, di grande sensibilità ma dubbie facoltà mentali, vorrebbero salvare la nipotina, che il lucertolon-pesce tiene in dispensa sotto un ponte, ma l’ottuso governo coreano, pilotato dai so-tutto del governo a stelle e strisce, s’avviano ad un’azione distruttiva – come quasi tutte quelle dell’uomo contro la natura – col lancio di un’arma chimica: l’Agente Giallo. Alla gente il giallo puzza di marcio e di rischio per la salute comune, sicché è nella tensione crescente delle manifestazioni, che s’inserisce il climax del film, con la resa dei conti sotto le arcate del ponte, tra archi (con frecce di fuoco), giavellotti improvvisati, code da tritone, molotov, benzina e gas velenosi. Il mix riconcilia con la voglia di cinema puro.
Sì, a rileggere riaffiora il mostruoso sospetto del b-movie. Pure, non bastasse già l’aperta denuncia del film all’aggressività dell’uomo nei confronti della Terra, così come a quella di certi arroganti esecutivi in questioni di politica estera, anche la sola fattura di The Host sarebbe sufficiente ad accreditare a Bong Joon-ho apprezzamenti che vanno ben oltre l’ordinario mestiere. Tra le tante scene sopra le righe, edificate con ingegneria visiva elegante e funzionale, si può citare quella della comparsa della creatura, un’impressionante variazione di ritmi tra gli attori (accorrono curiosi, si fermano, fuggono), visuali (carrellate, zoom e accelerazioni fulminee in piano sequenza) e lo stesso mostro, che trapassa dal nuoto al galoppo avvicinando il primo piano o sparendo fuori campo. L’effetto è quello di un panico montante in loco, perfetto cinema d’invasione, pronto a travasare più d’una stilla d’ispirazione nel fortunato Cloverfield.
Una sequenza del genere, e di genere, ha tanto d’immediato ed adrenalinico, come altre a seguire, ma nello sviluppo della pellicola, la sensazione spiazzante s’alimenta poi col combinarsi, da un lato, di ansie apocalittiche e di quarantena da disaster movie, dall’altro con l’efficace ritratto di famiglia in un inferno, in cui serpeggiano scatti d’umorismo demenziale e d’epica reietta. Se ne può restar storditi, ed avvertire il frullato indigesto per difetto d ‘amalgama. A un tempo, però, questa strategia della tensione che ridigerisce persino lo Spielberg de Lo squalo e riesce a divertire mentre addita causticamente le follie del dominio umano sulla natura, giganteggia per originalità, forza d’urto e capacità urticante. Un disturbo ben riuscito.