Ripescare Il mostro della laguna nera (1954) di Jack Arnold dagli abissi del bestiario della Universal, non è operazione di vana archeologia subacqueo-cinematografica.
Il semplice fatto che il regista convincesse la casa di produzione a girare in formato stereoscopico basterebbe a collocarlo tra gli antesignani dell’attualissimo ed abusato 3D. Come se non bastasse, dall’autunno del 2012 si sono diffuse le voci su un remake, prodotto da Eric Newman, Marc Abraham, Allison Thomas ma soprattutto Gary Ross, nipote di uno degli sceneggiatori dell’originale.
La notizia – o meglio, lo spunto critico, non è tanto quello del remake, quanto del malumore di un manipolo di fans, la cui ortodossa fedeltà al film in bianco e nero era stata resa poco prima più esasperata dalla messa in vendita di un cofanetto dal titolo Universal Monsters – The essential collection, in cui il bipede umanoide-anfibio-alienoide era tenuto in compagnia da non meno noti colleghi, per un totale di otto classici: Dracula, Frankenstein, La mummia, L’uomo invisibile, La moglie di Frankenstein, L’uomo lupo, Il fantasma dell’Opera.
I titoli erano stati rimasterizzati in Blu-Ray, e proprio Il mostro della laguna nera era stato sviluppato in 3D, suscitando più di un dubbio. Rispetto all’effetto vintage di molti coetanei, o alla deperibilità di certi mostri di cartone, Gill-man – così viene chiamata la mostruosa creatura di Jack Arnold – conserva un fascino tanto longevo quando difficile da manipolare con lo spolverino moderno, senza tradirne la classicità.
Il film del ’54 è piuttosto impermeabile all’invecchiamento – fatta salva la fisiologica dose di rughe – per una serie di ragioni, una delle quali, addirittura, potrebbe riguardare “l’inconscio collettivo mediatico”. Salpiamo, però, dalla trama. Dopo il ritrovamento di uno strano artiglio a metà tra l’umano e l’anfibio, un team di scienziati organizza una spedizione paleontologica lungo il Rio delle Amazzoni, imbattendosi in una laguna rimasta pressoché immutata dalla preistoria.
Le profondità acquatiche rifugiano Gill-man, creatura primordiale ibrida tra pesce ed uomo. Il mostro viene catturato, ma non solo riesce a scappare: spostando strategicamente alcuni tronchi, impedisce la fuga al natante.
Chi pesca (e caccia) chi? Quando Gill-Man mostra di nutrire un particolare interessamento nei confronti della fanciulla di turno, Kay (Julie Adams), sembra rivivere una versione fangosa e bagnata, ma affine, del King Kong di Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack. Caccia grossa, rapporto mostrodonna, conflitto scienzaavventurieri sono i punti caldi della confluenza.
Ne Il mostro della laguna nera, però, Jack Arnold si produce in acrobazie cinematografiche sfruttando l’ambientazione semi-acquatica, che conferiscono al film una vena onirica, se non leggermente surreale.
Le riprese subacquee sono numerose, ma lungi dal limitarsi al virtuosismo della ripresa sott’acqua, ne trae partito per una serie di variazioni e di carpiati visivi. Nelle scene di caccia al mostro, ad esempio, la necessaria incomunicabilità sottomarina produce una visività da film muto, suggestiva, imperiosa, da viaggio cinematografico a ritroso. Ancora, e soprattutto, la scena in cui Kay nuota sulla superficie, mentre Gill-man la insegue, a sua insaputa, con un sincronizzato a pelo d’abisso, è una sfida suggestiva tra piroette e crawl, col brivido che corre sulla scia dell’acqua. L’effetto è quello di un Thunderball allucinato, in grado persino di far affiorare una suggestione sommersa: quella delle scene sottomarine dell’Atalante di Jean Vigo, note al grande pubblico anche per essere state utilizzate nella sigla di Fuori Orario su Rai 3 da Ghezzi e co.
C’è, ne Il mostro della laguna nera, una tensione spazio-temporale, coerente alla mistura di horror e fantascienza, che valorizza scenari e sviluppi. Il viaggio nello spazio, ossia la penetrazione nella laguna, diventa una sorta di viaggio nel tempo, dacché l’ecosistema appare a misura di mostro. La laguna, dunque, assurge a trincea della suspense, specie quando viene bloccata dal tronco: è il luogo di uno scontro ineludibile, il pericoloso stargate tra due mondi che si fa arena costringente, senza via di fuga.
Pare una versione hollywoodiana di Conan Doyle, e non a caso si potrebbe azzardare una lontana comunanza genealogica rispetto a Jurassic Park, tanto più considerando che la laguna è “nera” per la presenza del mostro, non meno che le acque di un altro esemplare di Spielberg, Lo squalo, minacciose per la presenza di una creatura ostile.
La strategia della tensione, per un film così attempato, non è dunque del tutto demodè. Ancor di più per il rovesciamento che sussegue alla scoperta della natura anfibia del mostro, che riesce persino a salire sulla barca: da intrusi nella laguna, gli umani diventano “infestati”, con la navicella a rischio, come ingurgitata nel tutt’uno organico lagunamostro.
Questo non può non ricordare in qualche modo Alien; e d’altronde, tra i mostri della Universal del famoso cofanetto, Gill-man è quello che per sembianze riesce ad evocare meglio l’idea di un corpo alieno, per quanto paradossale rispetto all’origine suppostamente terrestre del mostro, che gli scienziati credono sia l’anello di congiunzione evolutiva tra pesce ed uomo.
Fanta-scienza, appunto. Sarà che certe idee hollywoodiane sono vecchie come il mondo, ma Il mostro della laguna nera di Jack Arnold ha un make up che non invecchia, se ci è dato assumere il verbo frasale to make up in una, in particolare, delle sue traduzioni, ossia “inventare”: i costumi di lattice possono desquamarsi, ma certi meccanismi della narrazione, della suspense e della creazione d’immaginari non arrugginiscono.