Venere in pelliccia

Un regista teatrale sta adattando il romanzo "Venere in pelliccia" di von Masoch per una pièce teatrale ed è sfinito dopo aver fatto il provino a decine di attrici che aspirano al ruolo della protagonista. Improvvisamente però, compare una donna...
    Diretto da: Roman Polanski
    Genere: commedia
    Durata: 96'
    Con: Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric
    Paese: FRA, POL
    Anno: 2013
7.7

Probabilmente Emmanuelle Seigner è il diavolo. La decifrazione e la celebrazione del rapporto eros-thanatos risiede nel meccanismo narrativo di Venere in pelliccia (La Venus a la fourrure), che forse un premio della giuria a Cannes lo poteva anche prendere.
Polanski inizia e chiude la sua piece magnificamente fotografata da Pawel Edelman attraverso due dolly, uno avanti in avanti all’inizio e uno all’indietro nel finale. In mezzo un gioco di seduzione che svela e contraddice tutte le norme possibili sulla morale, secondo una stilizzazione perversa dei campi-controcampi, dove il teatro è disintegrato attraverso l’uso di battute che rigano il copione di partenza, graffiandolo e ammorbidendolo.

Venere in pelliccia è un’opera teatrale romantica, perfida, chiaramente diretta da un cineasta d’altri tempi, un signore dell’altro secolo, che letteralmente catapulta lo spettatore in una maniera estetica, cinematica che oggi sicuramente non si fa più.
Si guardi in che modo classico il regista di Cul-De-Sac (1966) tiene ferma la camera, il calore-colore della fotografia sempre oscura, soffusa, accesa con una illuminazione che sembra derivata dall’uso di lampade a olio. Si guardino le inquadrature dei volti della Seigner e di Mathieu Amalric, accarezzati dalla luce, in un’atmosfera dove si pena potrebbe fuori uscire il Diavolo in persona a copulare con la Seigner mentre Amalric lascivamente ammira si eccita.
Il film di Polanski è così condotto, come una nuvola densa di incenso verde, con una’ode alla sua musa, moglie nella vita, presentata da subito come un’attricetta spiantata che compare all’improvviso, per puro caso, tra le mani di Amalric che, è altri non è se non l’alter ego del regista, come si evince anche nella scena dove indossa i tacchi della Seigner con il rossetto, a rappresentare una sorta di doppio del personaggio interpretato da Polanski stesso in L’inquilino del terzo piano (La Locataire).
La Venere di Emmanuele Seigner così continua quel rapporto tra eros e thanatos che Polanski ha portato avanti in altri due film: Luna di fiele (1992) e La Nona Porta (1999). Ma stavolta la resurrezione erotica di sua moglie avviene in modo più dolce e costruttivo, narrativamente lo spettatore viene condotto all’interno di un dedalo di astuzie che combaciano quasi sempre con un meccansimo di continua frustrazione nei confronti dello stesso.
Si guardi come Polanski in alcuni punti concentri la sua attenzione sui particolari più piccanti, come nelle inquadrature ferme sull’ampia scollatura della Seigner che mima l’azione di mettere dentro il suo decolté il contratto di dominio stipulato con Amalric e indugi mostrando con sprezzo del ridicolo una parte del meraviglioso capezzolo sinistro di sua moglie.
Quella di Polanski è un’ordalia della meraviglia, un intrinseco sconfinamento verso la maledizione della visione, verso il rapporto tra il visibile e il non visibile utilizzando, come aveva già fatto nel devastane (e troppo pesante) kammerspiel La morte e la fanciulla, in modo teorico il fuori campo, mettendo in prospettiva il desiderio, cuocendolo a fuoco lento, ordinando gli elementi dell’eros senza mai mostrarli.
Questo Venere in pelliccia fa ripensare ad un altro film, di alcuni anni fa, Fur Ritratto immaginario di Dinae Arbus (2006), un penoso tentativo condotto da Steven Shainberg di dare corpo alle ossessioni della fotografa Arbus, con una Kidman completamente spaesata e irriconoscibile, che già dava segni del declino inarrestabile cui sarebbe andata incontro.
Rispetto al superficiale film di Shainberg, quasi fosse una sfilata di moda consumata per compiacere i più miseri istinti, quello di Polanski appare come uno straordinario, raffinatissimo gioco di un signore che non appartiene per fortuna al nostro tempo, ne vive un altro e si lascia ogni volta sedurre dal caso, dall’intramontabile persecuzione della perversione intesa come lavoro sul testo, reinventando Masoch, costringendo la pièce teatrale all’interno di una fotografia che celebra il cinema e arroventa il testo, consegnando alla Storia un altro assolo polanskiano, degno delle ultime sinfonie di Beethoven.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).