Se c’è un regista con il quale non si può scherzare, con il quale non c’è possibilità alcuna di appello, di una qualsivoglia redenzione, catarsi, questo è Haneke. Il suo cinema lascia in un’interdizione totale lo spettatore, costringe lo sguardo ad una segregazione morale implacabile.
Il motivo terminale di un film come Amour è la presenza asfissiante del fuori campo. Il film di Haneke mostra delle sorprendenti affinità con Sussurri e Grida di Bergman, non tanto ovviamente per il contenuto, ma per la forma, tagliata verso una moderazione aristocratica ma non cattedratica dello sguardo. Ogni fotogramma di Amour riguarda la morte, l’immagine del trapasso, la concezione antica della perdita intesa come memoria che lacera il disegno divino di una rappresentazione dell’Assoluto in senso vocativo. Per Haneke il trapasso è la metafora della crudeltà, l’oblio della forma e la sinfonia armoniosa del funerale recitato nel suo atto più conclusivo e doloroso.
Haneke procede molto pacatamente con ordine e armonia nella descrizione di questa lenta progressione verso la morte della protagonista. Le sue scelte di regia sono semplici ed efficaci, i movimenti pochi, quasi assenti, i campi sono quasi sempre lunghi, alternati a stacchi di montaggio repentini e taglienti.
Il regista austriaco, dopo la perla de Il Nastro Bianco, ha deciso di non stupire più, di non voler dimostrare più alcun virtuosismo estetico, ma semplicemente, lascia che il metro di giudizio dell’esistenza si dipani nella sua interezza, fino a configurare una condanna dell’esistenza, un furto dell’anima, una sostanziale mancanza di amore all’interno del microcosmo borghese.
Haneke inquadra sempre i suoi protagonisti con un’aria supponente, consapevole di una onniscienza della visione, di una volontà di lasciar deflagrare il sentimento rimosso della rovina di un legame tra le gelide mura dell’appartamento, che fa da teatro ad un gioco al massacro interno tra i due.
Film quanto meno denso di feconde contraddizioni questo Amour, come un blocco di grafite inscalfibile, che cela momenti di rottura devastanti ed imponderabili.
La vecchiaia per Haneke è il momento in cui i legami si rompono, l’umanità trasfigura la sua scissione da un altrove imponderabile ad un presente invivibile, lasciando infine solo le macerie di una situazione degenerata verso l’ineluttabile fine.
Haneke con il suo cinema ha sempre costruito trappole narrative d’ingegno sopraffino e gelido, ha manipolato l pubblico con grande arguzia, si è costruito la fama di regista gelido e manipolatore, crudele e raffinato. Haneke è un regista di thriller in guanti bianchi, dalla morale cristallina, inviolabile. I suoi film conducono sempre ad uno stato attonito e all’incredulità nei confronti di una violenza interna che sconquassa e ribadisce la pesantezza di tocco di un regista mai piegatosi ad alcuna regola di messa in scena.
In questo senso, Il Nastro Bianco e Amour sono delle rotture rispetto a questo modello. Questi due film premiati con la Palma d’Oro a Cannes elevano ad uno stato di perfezione assoluta il suo cinema, rendendoli pilastri estetici che architettano una impostazione visiva aulica, deterministica, compenetrata ad un contenuto perfettamente misurato al livello di potere delle immagini.
Haneke ha raggiunto la tanto agognata quadratura del cerchio, senza più furbizia, ma con la certezza di aver ben compreso il felice connubio tra scienza della visione ed una capacità di presa sul pubblico che forse non ha eguali in Europa. I suoi film spiazzano ancora, ma con un senso dell’ordine e della periodicità che prima non erano visibili.