Al grande documentario sulla crisi si aggiunge un nuovo tassello, finora il più lancinante. Due giorni, una notte dei fratelli Dardenne pone l’indice sulla battaglia per il posto di lavoro, traducendo in immagini la grande guerra personale di una donna distrutta dagli eventi. Marion Cotillard si cala nei panni della disperata protagonista di un’odissea esistenziale dove all’infinito tumulto psicofisico si accompagna la sfida (forse già persa), nel convincere i colleghi e se stessi nel non darsi per vinti.
I Dardenne oggi possono ancora permettersi un cinema pulito e bressoniano, che scavi radente la realtà delle immagini e restituisca il cuore pulsante di una città che in questo caso è francese, ma potrebbe essere un qualsiasi altro luogo europeo. Il pedinamento dardenniano della mdp è costantemente rivolto al volto da “uccellino ferito” della Cotillard, ormai diva splendente da rotocalco, che si lascia imbruttire (ma non arriva ai livelli delle colleghe Kidman e Theron nei rispettivi The Hours e Monster) e regala una performance sì aderente ma dove in realtà non c’è nulla di trascendentale. Il lavoro fatto da Cecile de France su Le gamin au velo (2011) era più scarno e puntuale. La Cotillard offre il volto emaciato di una donna ridotta ad uno straccio che assume compulsivamente compresse di xanax per alleviare il dolore al torace, riducendo la gamma espressiva a pochi rantoli di delicata indeterminatezza.
Non che i Dardenne potessero fare altrimenti. Deux jours, une nuit è la ricognizione di un’agghiacciante “rimonta” giocata su una partita che era iniziata con uno svantaggio colossale. La Sandra della Cotillard si tiene stretta il posto di lavoro con le unghie e i denti, conduce una battaglia con una forza d’animo impressa a fuoco dall’intervento familiare del marito, che le infonde una fiducia granitica, facendole superare gli enormi problemi fisici legati alla depressione. Proprio riguardo alla messa in scena di questa malattia i Dardenne guardano in faccia la realtà ed emergono dall’indifferenziato bolo delle recenti rappresentazioni cogliendo l’aspetto più tragico della patologia, ricorrendo allo stratagemma del tentato suicidio.
Nei film precedenti scene così fortemente drammatiche non si vedevano. L’Enfant Una storia d’amore (2005) e Le gamin au velo avevano una pulizia grafica maggiore, una cronometria narrativa tale da renderli cristalli di pura tensione iconografica. I personaggi di L’Enfant erano due ragazzini immaturi con le spalle al muro, che dopo avere vissuto l’immane tragedia della vendita del neonato da parte del giovane padre delinquente si ritrovavano a parlare in una prigione. Là tutto il minimalismo figurativo dei Dardenne faceva il suo corso, placido e solenne, spietato e senza una riga di commozione o persino empietà. Deux jours, une nuit è meno distruttivo, ritrae la realtà come fosse una mesta perizia scientifica, dove il dolore psicofisico e la battaglia sociale si fondono con urgenza e precisione come sempre uniche. Se il documentario è la messa in scena di uno stato dell’anima dove si prende le distanze da un argomento che si conosce a fondo, i Dardenne hanno documentato la depressione e il precariato con la forza di un timbro grafico che non si arresta mai davanti all’evidenza di fatti incontrovertibili.