Documentario sperimentale/poetico del Maestro Chris Marker dove non c'è una vera e propria trama, ma una calibrata selezione di immagini.
Diretto da: Chris Marker
Genere: documentario
Durata: 100'
Con: Florence Delay, Kim Novak
Paese: FRA
Anno: 1983
“Con cosa sto avendo a che fare?” è la domanda che potrebbe porsi lo spettatore di quello che si è soliti considerare un documentario, ma che a ben vedere è quanto meno un ibrido; benché, tutto sommato, non si esagererebbe chiamandolo film di finzione.
Ciò che fa propendere verso il polo della finzione Sans Soleil, una delle migliori opere del geniale fotografo e regista francese Chris Marker, è che, seppur presenti una materia prima tipica del documentario (scene riprese in diretta e senza messa in scena, personaggi reali che agiscono nel loro reale contesto, materiali d’archivio , commento fuori campo), questa si organizza in un forma romanzesca – quella epistolare – e in una dimensione immaginaria, dato che mittente e destinatario del carteggio sono personaggi di fantasia.
Una donna ci legge le lettere che ha ricevuto dal cameraman Sandor Krasna (a tutti gli effetti l’alter-ego di Marker), mentre scorrono le immagini raccolte in anni di vagabondaggio, spezzoni di film, estratti di trasmissioni televisive giapponesi.
Delle bambine su una stradina in Islanda, che Krasna ricorda come l’immagine della felicità, un Giappone nel pieno boom elettronico degli anni ‘80, sbiaditi angoli dell’Ile-de-France, la San Francisco di Vertigo, la Guinea-Bissau dove il sangue delle giraffe cacciate si confonde con quello dei guerriglieri traditi.
Il commento, notoriamente considerato dai documentaristi un azzardo pacchiano dopo l’avvento della pressa diretta, trae tutta la sua dignità anzitutto dalla poesia dei testi, e in secondo luogo dal fatto che non si fa mai didascalia. Più che descrivere le immagini, le stravolge dal loro reale contesto e le reinserisce in una logica sconosciuta al mondo reale, ma tutta interna al discorso di Krasna-Marker.
È in una famosa sequenza di questa pellicola che viene coniata l’espressione “egalité du regard”, la parità dello sguardo che Marker dice di aver trovato nei mercati di Bissau e di Capo Verde. In un gioco di seduzione: «La guardo. Lei mi ha visto.
Sa che la guardo. Mi offre lo sguardo, ma solo con l’angolazione, come se non fosse rivolto a me. E per finire, lo sguardo vero! Diretto! Che è durato 1/25 di secondo: il tempo di un’immagine». Guinea-Bissau e Giappone sono continuamente messi in parallelo in una maniera apparentemente arbitraria da Krasna-Marker.
Non è l’asse paese ricco/paese povero ad ordinare il confronto, ma se su un’asse sono disposti, i due Paesi, lo sono su quello della sopravvivenza. E ne ricoprono i due poli estremi. «Il mio movimento perpetuo – spiega in una lettera – non è una ricerca di contrasti. È un viaggio ai due poli estremi della sopravvivenza».
A dispetto dell’abisso economico che li divide, entrambi si portano addosso un perpetuo senso di caducità. La quotidianità di Giapponesi e guineensi poggia su una fragilità letale. Quella tellurica dei terremoti, che ha temprato i nervi nipponici.
Quella della siccità e dell’indigenza, dei sanguinosi golpe e delle guerriglie, della schiavitù e della legge del più forte, comune a tutta l’Africa nera. È il modo di affrontare la sopravvivenza, cioè la morte e il tempo, ad affascinare Krasna-Marker nel febbrile su e giù per il mondo in cui ci accompagna il montaggio. «D’altronde, quello che voglio mostrarvi sono le feste di quartiere», annuncia prima che scene di parate in maschera esplodano sullo schermo.
La festa, la cerimonia, il ricordo. La memoria è la chiave di volta di questo “film-essai”, custode di profetiche intuizioni su un processo oggi più manifesto, ma che trent’anni fa solo sensibilità come quella di Marker potevano riconoscere dai suoi primi germi. «Mi ricordo di quel gennaio a Tokyo, o meglio, mi ricordo le immagini che ho girato in quel gennaio, a Tokyo.
Adesso si sono sostituite alla mia memoria. Sono la mia memoria. […] Mi chiedo come facciano a ricordare le persone che non filmano, che non fotografano, che non registrano, come facesse l’umanità per ricordare ».
Sono queste intuizioni ad aver portato Krasna-Marker nel Giappone dove ogni oggetto può avere il suo cimitero e la commemorazione è epidermica alla quotidianità. «Non ricordiamo. Riscriviamo la memoria come riscriviamo la Storia».
A Tokyo, il cameraman filosofo – che nella realtà è cresciuto a pane e seminari di Sartre – ha riconosciuto nella tecnologia di un aggeggio elettronico con cui Hayao Yameko gioca a manipolare delle immagini e che omaggiando Tarkovskij chiama “La Zone” , un nuovo spazio, lo spazio in cui si rifugiano le immagini come insetti scampati alla tela del Tempo.
Lo spazio distopico attraverso cui, nel 4001, secondo la sua profezia, gli uomini non avranno perso la memoria, ma l’oblio. Lo spazio della memoria assoluta, inaccessibile al Tempo.
Doveva essere un film di fantascienza, e Sans Soleil, che tra le tante cose è anche il racconto di questo progetto irrealizzato, diventò una magma inaddomesticabile di poetiche riflessioni di tutta una vita, a cui forse non c’è approccio migliore che il semplice abbandonarvisi.