Come le antiche arie del Danubio, il Nosferatu di Herzog si impone come massima espressione della cultura tedesca. L’orrore inteso come forza sovrannaturale che soverchia ogni certezza, tramuta i parametri estetici stessi nell’essenza di uno sguardo contemplativo che osserva e trascolora tutto nell’assoluto.
Finalmente, rivedendo Nosferatu-Phantom der nacht in una fiammante copia in Blu Ray, si può riconsiderare il genere dell’orrore nella sua essenzialità, quasi spartana. Le musiche, i colori, gli odori, i movimenti di macchina, i primi piani, gli sguardi limpidi di Bruno Ganz e Isabelle Adjani, contro gli antri cavernosi del volto scavato dal tempo del vampiro Kinski, fanno pensare ad una solennità, una pace interiore, un silenzio e un senso del tempo, che conferiscono al cinema di Herzog la potenza audio-visiva di un pentagramma solcato da piccoli rigagnoli di estrema sintassi immaginifica.
Per tutto il periodo della sua durata nel Nosferatu di Herzog mormora qualcosa di indecidibile, udibile solo ad un livello proto percettivo: dai pipistrelli e dai piccoli esseri notturni balenano visioni di una natura ferrigna e tetra, di cui si nutre la fredda notte piovosa.
I cieli sgombri, le immense pianure nordiche, il respiro di paesaggi incontaminati dal tempo, si prestano all’accuratezza pittorica di uno sguardo attento alle reticenze dello spirito, ai voli pindarici di un costrutto morale che si impone in quanto sguardo ipnotico e cristallizzato i una idea eterna di mistero e d’ignoto. Il regista tedesco concepisce così la sua Hollywood europea: i capitali spesi, come succede forse solo in Malick, servono a tentare un deragliamento dello sguardo, a ricapitolare il nudo arrancare dell’occhio all’interno di un narrare sordo di eventi incomparabili ed eterni.
Il miasma magmatico del Nosferatu herzoghiano codifica una natura splendidamente selvaggia, asservisce alla regola temporale, come un metronomo segna il giusto passo ad un corridore scattante. In questo senso, si può dire che Herzog è il pittore di un immaginario che tende a farsi spirito, dipinto nella scure della circolarità dialettica di un puro discendere.
La Hollywood di Herzog si accende nell’immenso nulla di scenografie barbare e libere dal potere di Dio. Nosferatu tende a rafforzare la sua idea di Mito come esegesi di uno sguardo fermo nel ghiaccio del tempo, come nell’occhio l’orrore è fermo alla contemplazione di un significato non più udibile.
Il passare del tempo, il fermare il tempo, o il deformarlo significa la ricezione sfinita di topoi magici e riflettenti la figura di un Dio di cui non si concepisce il volere.
Dall’alto Nosferatu domina con la sua figura perpetuamente opprimente e oscura, nell’avvicinarsi della notte uno spirito solitario si avvicina alla bella Adjani, la cui dolce pelle, bianca come la neve, rimanda ai dipinti fiamminghi delle vergini immacolate: una Sposa di Dio, cui il Principe delle Tenebre marchia il collo, con le sue punte letali. Nella solennità oracolare dello sfacelo e della peste, il sogno di vita eterna del Vampiro si spegne, rimanendo immobile nel segreto di un’unione impossibile, come se dal collo bianco della donna, felice connubio di una luce perpetua che aderisce al suo occhio per l’ultima volta, il vampiro avesse ricevuto l’ultima benedizione terrena, come fosse la definitiva risoluzione dell’inganno perpetuo della sua esistenza.
Il Nosferatu del 1979 risulta così essere uno dei migliori film di un regista che ha dato il suo meglio soprattutto nel documentario.