Nel 1200 d.c. si svolge una sanguinosa battaglia tra due clan, dopo che il Re ha fatto catturare Kozlik, il vecchio del clan rivale. L'ira dei suoi figli non si fa attendere, a farne le spese è Marketa, figlia di Lazar, che il Re tenterà disperatamente si salvare.
Diretto da: Frantisek Vlacil
Genere: drammatico
Durata: 162'
Con: Josef Kemr, Magda Vàsàryovà
Paese: REP. CECA, GER
Anno: 1967
Brutale e francescano, arcano e visivamente costruito su un montaggio ellittico, sospeso tra attimi di lentezza invisibili all’occhio e acuti di azione primordiale e cacofonica.
Non si può riassumere facilmente l’enorme dose emotiva che reca la visione di un magnete potentissimo come Marketa Lazarova (1967) di Frantisek Vlacil. Forse l’occidente industrializzato, colonizzato da tempo dall’immaginario hollywoodiano non è e non sarà mai pronto ad una visione così potente e apertamente “nuda”.
La prima cosa che salta all’occhio dello stile del ceco, misconosciuto, Vlacil è l’importanza pregnante dell’immagine. I bianchi e i neri svettano con violenza su tutto. Lo stile di Vlacil si aggira tra i dipinti fiamminghi, ma non tocca mai il brulicante caos delle composizioni di Bruegel. L’immaginario di riferimento con cui si va a giudicare la forma di Marketa Lazarova non potrà mai essere quello di Tarkovsij, Vlacil compone le sue immagini immani come una sinfonia dai toni sempre cupi. Un’opera del genere è difficilmente digeribile anche per la sua assenza di ironia. Ma era possibile fare dell’ironia su un tempo buio come il Medioevo? Si può fare ironia quando ci si concentra sullo sconto tra cristianesimo e paganesimo?
In un film dove si assiste alla violenza su una vergine indifesa, alla figura di un frate che predica la parola di Dio che subisce continuamente le angherie pagane, fino all’incesto tra due fratello e sorella, in una zona barbara della Scandinavia, secoli prima dell’Illuminismo, non si può certo pretendere che il tono sia diverso.
Il film all’epoca venne scartato dal mercato, che gli preferì i più moderati Tarkovkij, Bresson, Bunuel, Bergman. A quanto pare a Vlacil spetta la sontuosa rivalutazione in merito al fatto che tutto ciò che non si conosce viene elevato, nel tempo, allo status di opera di culto, perché i tempi sono maturi e ci si deve confrontare con il mercato del didascalismo forsennato, con una Hollywood in mano ai cinecomix e le serie tv che impostano la loro fortuna più sulla pregnanza dello script, che non sul valore dei silenzi, delle immagini e su una costruzione troppo ricca ed edulcorata delle ambientazioni.
Il cinema è nato come arte della complessità pittorica, come arte del montaggio basato sulle ellissi e sui chiaroscuri, sulla forza di volti scavati dal tempo, sulla bellezza virginale di fanciulle costrette a subire il peccato in un contesto avverso, dove la malvagità genera la crudeltà delle guerre e la definitiva catarsi, conseguenza di una redenzione sempre figlia del compromesso che eviti altre guerre.
Il cinema è nato come limbo sulfureo e Marketa Lazarova nasce da questo limbo dell’immaginario. La sua cacofonia visiva può sembrare quasi intollerabile, ma l’eventuale l’incapacità dello spettatore di accettare il suo mistero sta più nel fallimento ideologico della dottrina imposta ai nostri giorni che nell’evidente difficoltà del film stesso, laddove non si può tollerare il fatto che l’immagine vinca sullo script, dove la colonna sonora è impostata per accompagnare docilmente ogni produzione, fino a far scomparire completamente il senso nelle immagini.
Vedere Marketa Lazarova oggi significa appropriarsi di una visione dove la creazione di un mondo alternativo è stata messa in piedi in barba ad ogni regola di scrittura e di regia. I suoi volti e i suoi ambienti provengono da una galassia percepita in un mondo che non è mai esistito. La sua forza e la sua tragicità impongono il riserbo di dubbio mai abbastanza celato dietro le ombre del moralismo.
Se Marketa Lazarova è un’opera morale perché annienta la morale significa che il suo nichilismo è servito in modo tale da dare l’essenza di quel mondo barbaro che viene messo in scena senza alcuna edulcorazione.
Dunque, cosa si può dire di aver visto nel film di Vlacil? Un tormento senza lacrime, un melodramma purificato dall’assenza del patetismo. Un’immagine del Tempo condensata in 2 ore e 45 minuti che si spingono molto oltre il limite della decenza. Un’opera indecente che fa pensare. Indegna sicuramente per un’occidente dormiente che non sa vedere oltre la via maestra tracciata dal pedante didascalismo dello script.