La Palma d’oro di Cannes 2009 è la più giusta (anche se l’ennesimo capolavoro di Jane Campion, Bright Star avrebbe meritato di sicuro un premio). quella sulla quale c’è meno possibilità di discussione. Perchè il film è di una implacabilità totale, quasi disarmante. Michael Haneke ha tentato di trovare una possibile “traccia” che spiegasse il Male morale, la malattia dell’anima di cui si sarebbe impossessata la giovane Germania degli anni ’20-’30. La Germania nazista. Quei bambini a cui vengono impartite regole ferree a forza di punizioni corporali e umiliazioni di vario genere, avrebbero poi fatto part della classe dirigente impazzita per il Furher. Questo non vuol dire che fosse e che sia sufficiente che una comunità sia basata sulla repressione per far nascere dei mostri, ma questo, secondo Haneke, è quello che è accaduto in Germania all’inizio del secolo.
Haneke non aveva mai girato un film in bianco e nero. E’ indiscutibile e molto facile da dimostrare (quasi banale) il fatto che questo sia il film più bello di Haneke. Il regista austriaco si sente molto ispirato da questa forma e il risultato inghiotte letteralmente lo spettatore in una dimensione di oltre-realtà in cui il monito morale diventa motivo e modello per un sermone scritto in punta di piedi. L’arte è il concepimento di una struttura ferrea e a sé stante, e Il nastro bianco fa di questa espressione una sublimazione investigativa che però non tiene conto di una variabile importante: la catarsi. Alla fine del film non si sa chi sia veramente stato a compiere gli atti di efferata crudeltà, c’è solo un processo alle intenzioni, ma manca la confessione e la “punizione”. Sappiamo che quei bambini colpevoli non verranno mai giudicati, perché assolti (e avvinghiati) all’interno del sistema di potere Paterno, ovvero del Reverendo.
Haneke, come negli altri suoi film, non giudica, non dimostra, non chiude mai il cerchio, il suo cinema manca di organicità, non per un difetto della sceneggiatura, ma per scelta. Prendere o lasciare, la meravigliosa semplicità organica del cinema americano qua non trova posto, Il nastro bianco è un film in cui manca la completezza nei ruoli, è un film che lascia l’amaro in bocca, ma lo splendore negli occhi, con un b/n “accecante e siderale”, come ha detto Bellavita su Segnocinema 158. Stavolta bisogna dare atto a Isabelle Huppert di aver premiato il film di un amico/collega che ha girato un film di cui non ci si dimentica facilmente. E, per una volta, è il film meno fastidioso del regista.
Ne Il nastro bianco queste gabbie ci sono ancora ma la limpidezza del b/n e l’ambientazione delle vicende in un periodo storico lontano (1914), dona al suo cinema una falsità più autentica della realtà stessa messa in scena in film come Funny Games, La Pianista o Niente da nascondere. Il nastro bianco ha il dono della trasparenza di contenuto (di cui ho già parlato nel post precedente), e in alcuni casi raggiunge le vette della poesia. Persino la scena molto difficile dell’incesto tra il medico e la figlia risulta quasi poetica e per niente disturbante o gratuita, a differenza delle pessime scene che si vederono ne La pianista. Che Haneke abbia sposato un cinema di poesia è una gran bella sorpresa, pare quasi incredibile, e la scelta di girare con un cast di attori sconosciuti è stato un vero colpo di genio. Anche due giorni dopo la prima visione non trovo ancora nessun difetto in questo film. Mi sembra talmente limpido ed accurato che non trovo nessuna prova di un’accondiscendenza ad un regime in cui il perturbabile fa da sfondo a delle terribili verità nascoste che vengono tragicamente a galla. Il 2009-2010 ci ha consegnato un’altra grande perla, dopo il capolavoro manniano.