La storia d'amore tormentata tra un pugile povero con figlio a carico e una donna che lavora nel Marine Land e viene colpita da un grave incidente che le fa perdere le gambe.
Diretto da: Jacques Audiard
Genere: drammatico
Durata: 120'
Con: Marion Cotillard, Matthias Schoenaerts
Paese: FRA
Anno: 2012
Quando si ha in mano una storia forte, bisogna solo applicare una regia pulita, matematica, ortogonale, perché il corpo del film prenda una sua forma definitiva nello spazio e si pianti nella memoria come un oggetto inscalfibile. E’ successo con I soliti sospetti di Bryan Synger (1995), è successo con Il Profeta di Jacques Audiard (2009).
Dopo l’enorme successo di quest’ultimo (salutato da Tarantino a Cannes 2009 con un’ovazione) che ha portato Audiard a confrontarsi, nel suo successivo film, con una storia che aveva molto meno mordente, rispetto a quella del precedente film.
In Un sapore di ruggine ed ossa Alain è un proletario, uno sbandato senza arte né parte, ma con un fisico prestante, atletico, a suo carico ha un figlio di 5 anni a carico. Alain si trasferisce dalla sorella e trova lavoro come butta fuori in una discoteca, qui conosce Stephanie. Si parlano, ma non c’è dialogo, non c’è rapporto, i due sono distanti anni luce, dal punto di vista sociale.
Lei fa l’animatrice in un parco per delfini, un giorno la piattaforma cede e si spezza entrambe le gambe. La sua vita cambia completamente. Stephanie chiama Alain. Inizia un rapporto, d’amore fugace e poi sempre di più di complicità. Alain inizia a partecipare a degli incontri di box clandestini, è bravo, vince gli incontri e inizia a vedere dei soldi. Poi a causa di una truffa perde il posto di lavoro e la casa della sorella, perché per colpa sua lei viene licenziata.
Inizia una nuova vita, Alain si dà alla boxe professionista e diventa un pugile, Stephanie diventa, forse la sua accompagna.
Tutto qui. Il film di Audiard si ferma alla descrizione, alla narrazione della vita, secondo una struttura di piena e classica catarsi. Ma se nel film precedente, Il Profeta, si intuiva la necessità di scardinare un sistema (la mafia dentro e fuori il carcere), di aprirlo per vedere come funzionava, per operare un fondamentale scarto sul reale, come nel classico Il Buco di Jacques Becker (1960), in Un sapore di ruggine ed ossa viene messo blandamente in scena il mélo, senza operare alcuno scarto, dirigendo il mondo narrativo senza sussulti, caratterizzando i personaggi come elementi di una drammaturgia coesa e suadente ma, inevitabilmente, fondendo il deja-vu con una spettacolarizzazione intima che invita all’immedesimazione, all’empatia, costruendo i volti vivi su un paesaggio morale, in cui la sintesi tra anima e carne della strada, luogo in cui Alain si combatte le sue battaglie per la sopravvivenza, si faccia manifesto di un realismo che ambisce a diventare fiaba.
Il Profeta era un preciso organigramma della detenzione articolata di un nascosto privilegio che portava il personaggio Malik ad intraprendere un lungo viaggio alla ricerca di una salvezza che sembrava persa fin dall’inizio. Scoperta di sé sulle macerie di un sistema corrotto. Questa era la lezione morale di Il Profeta. Elaborazione di una strategia di morte che portasse al controllo totale del sistema che lo aveva condannato all’emarginazione. O fai da te o sei finito ancora prima di cominciare. Il messaggio potrebbe sembrare un po’ reazionario. Ma lo sguardo di Audiard è esatto, affilato, non perde un millimetro di colpa, di sofferenza, raffigura un personaggio che non si rassegna mai ad un destino che pare già scritto.
Tutto questo in Un sapore di ruggine ed ossa non c’è, per una questione di calcolo matematico: mancano importanti elementi che possano salvare uno script compromesso fin dall’inizio. Per il resto, la regia affila gli artigli, si mostra forte e decisa. Ma manca il motivo principe del film. Mostrare qualcosa che faccia dubitare di quello che sia sta vedendo. Il Profeta lo faceva vedere, era un film acuto, in cui Audiard vedeva oltre. Quest’ultimo film rimette le cose a posto, gli è bastato aver fatto soffrire i propri personaggi di un dramma lancinante, senza preoccuparsi di intervenire sui perché e i percome.