Il problema dell’interlocutore è al centro del nuovo film di Laszlo Nemes, Tramonto. Per tutta la durata delle due ore e venti, la protagonista Irisz si trova a cercare un chiarificazione definitiva della propria condizione esistenziale, verso un contro campo che non arriverà mai a rivelarle alcunché. Se nel precedente, fortunatissimo film di Nemes, Il figlio di Saul, la dialettica, serrata e senza prova di appello, ebrei/nazisti era al centro del discorso, qui ci troviamo ai primi anni del XX secolo, nel 1913 a Budapest.
L’anno successivo l’intera Europa si ritroverà nel calderone del Primo Conflitto Mondiale. Questo passaggio temporale, tra due epoche diversissime, viene raccontato dal regista ungherese con un film già tramontato e ossessivo, ossessionato da tutto, dove il volto della protagonista preserverà l’espressione imbronciata e attonita durante l’intera proiezione del film. Tutto Tramonto di Nemes rimane ingoiato in una specie di abisso cosmico dove i piani si confondono, gli interni e gli esterni si perdono l’uno nell’altro e si amalgamano, il dentro diventa fuori e e il fuori diventa dentro, in un gioco di specchi magmatico e circolare.
In questo modo si ridefinisce un concetto di reale nel non conoscibile di una matrice cinematografica immaginifica, tale da rendere il dramma esistenziale carico di allusioni all’imminente guerra come in un’illusone infernale, dove i dubbi si accumulano senza soluzione di continuità. Perché la guerra? Come avvenne il tramonto di un’epoca? Forse tra il finale de Il figlio di Saul e quello di Tramonto non c’è una gran distanza. Sono tutti e due figli della stessa incomprensione storica.