Il non più giovanissimo Lorenzo Vigas è riuscito col suo lungometraggio d’esordio a conquistare lo scorso settembre il premio più ambito della Mostra del Cinema di Venezia. Ti guardo (Desde allá) nasce dalle contrade della venezuelana Caracas, città natale del regista, dove Armando (Alfredo Castro), grigio uomo di mezza età solitario ed introverso, invita a casa sua adolescenti presi dai marciapiedi facendosi offrire dietro compenso alcuni favori di dubbia moralità. Attratto da un ragazzo meno remissivo dei precedenti, Elder (Luis Silva), si spinge oltre l’istintuale passione erotica, cercando di avvicinarlo al proprio stile e ai propri gusti, prendersene cura nonostante la sua indole ribelle, difficilmente dominabile.
Un poco alla volta, il giovane efebo impara ad apprezzare le attenzioni di Armando, al di là della sua sgradevole omosessualità, ospitato e curato in casa di lui dopo che i fratelli della sua fidanzata si sono vendicati di una precedente aggressione, condotto a conoscere un ambiente lavorativo così diverso dalla consueta sporca officina (un ordinato laboratorio di protesi dentali), e a confidarsi sul proprio triste passato con una figura che acquista ai suoi occhi con sempre maggior autorevolezza quel ruolo paterno positivo e accogliente che gli è sempre stato precluso, abbandonato fin dalla giovane età nella vuota realtà delle bande suburbane, senza un destino cui aspirare, senza possibilità di sfuggire all’ineluttabile crudezza della vita.
Vigas assieme al co-sceneggiatore Guillermo Arriaga decide di aggiungere a questo modesto racconto di formazione una sfumatura decisamente inconsueta alla categoria narrativa. Le iniziali profferte amorose, sublimate in un affetto quasi genitoriale, in un legame di stima nel campo degli impieghi del mondo adulto, attraversando il sentimento di riconoscenza di fronte tanta gratuita generosità, si ripresentano in colui che all’origine era il destinatario povero ed approfittatore, indelebilmente trasformato nel suo corredo emozionale, animato all’appropinquarsi dell’epilogo di un amore autentico, che risuona direttamente delle corde più intime e denegate, e pure maledetto, accecato dall’opportunità di recare piena soddisfazione ad almeno una persona nella propria esistenza.
La chiave d’accesso di questo grave compito assunto da Elder è una delle declinazioni che lo sguardo perturbante di Armando assume nel corso della vicenda: il ritorno di un padre che si vorrebbe morto è quanto di meglio si possa desiderare per dimostrare la propria maturazione psichica. Purtroppo non è affatto certo che il parricidio sia la prova del fuoco necessaria al consolidamento definitivo del rapporto fra i due. È questo l’ambiente degenerato in cui si muovono i protagonisti, convincenti l’uno negli atteggiamenti stoici, l’altro nella verde arroganza che paradossalmente lo avvicina ad un insospettato microcosmo sorprendentemente compatibile e dannato ad un tempo.
Vigas gestisce con pertinenza le strutture filmiche, restituendo una rappresentazione asciutta e rigorosa, senza accompagnamenti musicali né virtuosismi dell’immagine: un’indubbiamente buona “ouverture” cinematografica. Ma abbiamo la certezza che la giuria veneziana (composta fra gli altri da Cuarón, Ceylan, Pawlikowski e dal nostro Munzi) abbia espresso retti giudizi bollando come meno meritevoli titoli come Abluka (Frenzy) di Emin Alper, o Sangue del mio sangue di Marco Bellocchio, L’attesa di Piero Messina, Francofonia di Aleksandr Sokurov, Rabin – The Last Day di Amos Gitai o Behemoth di Zhao Liang?