Forse con The Tribe siamo dalle parti dell’infilmabile, del cinema intollerabile, della provocazione fuori dallo spazio-tempo della visione. Un’opera così deve necessariamente creare un netto schieramento tra detrattori e estimatori. Come se il cinema potesse ancora essere un luogo di battaglia ferina e senza compromessi. The Tribe inizia e finisce nel silenzio più totale, con una freddezza di taglio registico del tutto amorale, che mostra senza battere ciglio una realtà animalesca e fuori controllo, eppure del tutto prossima al reale, del tutto credibile. Un degrado umano che trova la sua forza nell’ineluttabilità di un destino segnato fin dall’inizio, dove l’unica via d’uscita è assecondare regole che rispondono solo alla legge della giungla, di cui fa parte quella categoria umana che, per forza di cose, rimane relegata ai margini della società, come quella de sordo-muti.
Il disturbo psico-visivo causato da The Tribe potrebbe essere ricondotto ad altre “maratone” del sadismo studiato a tavolino come il celeberrimo Twentynine Palms (2003) di Bruno Dumont, sublime esercizio di cinema ultra reazionario, che dispiegava la forma cinema come un paesaggio visivo, ceduto ormai al più becero senso del nichilismo e della sconfitta morale e sociale, urlato con una sapienza registica che va di pari passo con questo The Tribe. E’ il cinema d’autore nella sua veste più ricattatoria e informe, il vessillo di una condanna inferta allo spettatore (come dimenticare l’immondo equivoco estetizzante de La moglie del poliziotto di Groning?), in nome di una purezza bressoniana equivocata e non più raggiungibile.
Sarebbe bastato che Dumont e l’autore di The Tribe, Slaboshpitsky, avessero visto un film come l’israeliano Viviane di Shlomi e Ronith Elkabetz, raro gioiello di pulizia grafica, più vero del vero, con una messa in scena di una semplicità e una nitidezza espositiva da far tremare i polsi e che, a tratti, fa persino impallidire il tanto decantato Una Separazione (2011) di Farhadi. Ma torniamo alla visione scandalosa di The Tribe, alla sua progressione tutta uguale, che riverbera un orrore senza nome e fa più male di tutti gli horror messi insieme, perché nel più completo silenzio, scoperchia un microcosmo sociale che lascia letteralmente impennare l’orizzonte della visione estrema, congiungendo i poli opposti, il caldo con il freddo, lasciando a tratti interdetti per una scena di aborto tra le più abominevoli viste sullo schermo di recente.
Il film ucraino mette il dito nella piaga, ma non fa mai sanguinare la ferita. Lo stile è mortalmente documentaristico, segnando un’imbalsamazione emotiva, da generare il rigetto per una visione inconcepibile, anche perché mostrata allo stadio primordiale dell’essere, senza anteporre alcun filtro al discorso. Vengono in mente i teoremi di Michael Haneke, con la differenza che il regista tedesco pone maggiore controllo alla sua opera. Slaboshpitsky no. Si può permette un cinema del tutto malsano, cui plaude molta critica formalista, che considera il gesto estetico puro al di sopra di tutto, del bene e del male. Il finale fa pensare. Perché è del tutto ovvio, ma rimane nella morsa gelida di un mistero silenzioso, che tende ad annichilire lo sguardo. Così che chi inquadra e chi è inquadrato rimangono sullo stesso piano di umiliazione. The Tribe chiude la bocca e lascia affiorare tutto l’orrore dal di dentro. Rimanendo indigesto e sopraffino, tedioso e feroce.