Il disorientamento nel mainstream si può ottenere solo attraverso un grande rispetto per i personaggi. La regista australiana Jocelyn Moorhouse vanta un cast di primaria grandezza, Kate Winslet si inserisce nel mosaico desertico della provincia australiana del ’51 con la sfacciataggine di chi ha alle spalle una già gloriosa serie di successi, coronati con l’Oscar nel 2009 per The Reader – A voce alta.
Alla fine vince solo lei, Kate Winslet, che si prende il trono da prima della classe senza neanche sforzarsi troppo. The Dressmaker – Il diavolo è tornato mette in scena un regolamento di conti dove il passato incombente necessita di una severa riconsiderazione dei fatti. Non tutto, infatti, è quello che sembra. Ci vuole tutta la prima parte del film per arrivarci, la Moorhouse prova gusto nel creare false piste prima di arrivare al dunque, assottigliando la già vaga linea di demarcazione tra la tragedia e la farsa. E di farsa si può senza dubbio parlare se si prende il personaggio di Hugo Weaving, capo della polizia in forte sospetto di omosessualità latente, cui piace indossare abiti vistosi e appariscenti.
Tutto l’armamentario di follie narrative deriva da un concept ben strutturato, preso dall’omonimo romanzo di Rosalie Ham. Al termine della proiezione la domanda riguardo al senso dell’operazione è molto semplice: la commedia può rinascere dalle proprie ceneri? Può un cast quasi interamente australiano far rivivere la magia di una classicità perduta (magari allusa dalla scena in cui nel cinema viene proiettato Susnet Boulevard), in tempi in cui il cinema fusion ha annichilito la separazione netta tra i generi? The Dressmker si situa nel mezzo, annaffiando di benzina (grazie al personaggio di Judy Davis) sia commedia che dramma. Il sapore è indistinto: non da fastidio ma si ha l’impressione di averlo già visto, anche se i personaggi sono talmente ben rifiniti da voler quasi lasciar credere che l’invito alla sospensione dell’incredulità si ha inganno fugace, che dura giusto il tempo di una visione.
Nei titoli di coda però c’è qualche traccia che aiuti a sbrogliare la matassa: il direttore della fotografia Donald McAlpine e la montatrice Jill Bilcock sono gli stessi che 15 anni fa lavorarono con Baz Luhrmann in Moulin Rouge! (2001). La sostanza del cinema cambia ma di poco, una propensione al disvelamento onirico del mezzo cinema ancora è visibile. Con The Dressmaker Siamo nel territorio della commedia surreale, con una punta di critica sociale e di feroce femminismo, che di questi tempi non guasta. Jocelyn Moorhouse prova ad elettrizzare il suo cinema in rosa, ci riesce finché lo spettatore non si accorge che la complessità del concept è in realtà una zavorra usata per creare il disorientamento mainstream. Quello da cui deriva la scena più incomprensibile e forse inattesa di tutto il film, la morte di un personaggio chiave che avviene a metà proiezione. Script fallace o fuori campo geniale?