Per comprendere appieno il mutamento avvenuto nel cinema di Abbas Kiarostami bisogna tornare indietro nel tempo. Molto indietro. Solo attraverso uno scavo profondo nel passato del suo paese di origine si può capire il motivo dell’inversione di tendenza manierista delle sue ultime opere. Recuperare Tadjrebeh (1973), il primo lungometraggio dell’autore iraniano, della durata di appena 53 minuti, significa riappropriarsi di uno sguardo perduto. La semplicità architettonica delle linee in b/n che solcano i volti e le strade di questo minuscolo film, racchiude tutta la potenza nascosta di un mondo narrativo in fieri.
Un ragazzino in un paese moderatamente ricco e libero si vede negata un’infanzia dove le meraviglie del pensiero, dei giochi e dell’apprendimento colorano la vita dei suoi coetanei (fuori campo) che hanno avuto la fortuna di andare a scuola. Lui no. Il piccolo protagonista della vicenda deve lavorare sodo in un ufficio dove fanno di tutto per contestargli il minimo errore o lo stile di vita poco incline all’ambiente di lavoro. A seguito di piccole dimostrazioni di prepotenza e di subalternità, il protagonista diventa l’emblema di una società che non funziona, se non per chi è nato da una buona famiglia e può garantirsi un futuro di successo.
Kiarostami indugia nei piani rosselliniani, compiendo un lavoro mimetico dove, regia, sceneggiatura e montaggio si dissolvono in un complesso mosaico fluido dove la l’epigrafe morale si lascia intendere nel novero di plastico di una vicenda descritta con una pulizia grafica di mirabile sottigliezza psicologica. Kiarostami tornerà in seguito a simili vette estetiche con Dov’è la casa del mio amico?, …e la vita continua, Sotto gli ulivi, fino a Il sapore della ciliegia, andando a riscoprire quella realtà rurale delle campagne e dei ruderi che hanno reso il suo cinema esemplare e unico dove ogni tassello immaginifico contempla una realtà densa di sfaccettature. Come in un documento segreto dell’anima iraniana. L’etica cinematografica di Kiarostami si lascia ammirare nella sua forma embrionale in un’opera densa di significati come Tadjrebeh, tale da imporsi come pietra di paragone rispetto tutta l’opera successiva del regista.