Una sceneggiatura leggerina, da peso piuma, ma un’interpretazione da campione dei pesi massimi: così l’ennesimo figlioccio cinematografico di Rocky, per quanto pericolosamente alle corde del melodramma boxistico, sopravvive al round del già visto. Nelle mani del navigato Antoine Fuqua (Training Day, The Equalizer), il pugilistico Southpaw L’ultima sfida riesce prevedibilmente solido, anzi, solito: la conta è facile – dal manager untuoso, al coach burbero tutto cuore e amarezze; dalla figlia che tifa alla tv, al rivale sboroncello e sboccato, fino – naturalmente – al campione dei bassifondi, che tra gloria, caduta e riscatto esaurisce tutte le stazioni conosciute del travaglio psico-sportivo. Che, per fortuna, è nei guantoni di Jake Gyllenhaal, ormai attore più che iper-allenato, un talento da Oscar: non fosse per la sua vena intensa, avremmo un film di soli addominali, una regia muscolare senza scatti regali.
Billy Hope (Gyllenhaal) ha una fedina così così, ma in compenso un palmares da boxeur che recita: “campione imbattuto dei pesi massimi”. Al dito, la fede: la bellissima moglie Maureen (Rachel McAdams), conosciuta nell’orfanotrofio dove entrambe sono cresciuti, l’ama e lo sostiene. Il quadretto si completerebbe con la villa di lusso, in cui i due vivono insieme alla figlioletta. Nella cornice, però, irrompe la tragedia: proprio mentre medita un possibile ritiro dalle scene, su suggerimento di Maureen, Billy si ritrova vedovo a causa di una rissa col rivale Miguel Escobar degenerata fino alla detonazione di pistola. È un colpo da knock out: al tappeto vanno il rapporto con la figlia e la carriera. Ma la campana deve ancora suonare.
Non c’è nessuna sorpresa in Southpaw: l’adrenalina è ben dosata tra dramma personale e scontro fisico, si lavora di cazzotti emotivi senza troppe finezze, non ci si azzarda ad uscire dall’angolo del filone cinematografico dei film sulla boxe, tra l’autodistruzione di Jake LaMotta e la grinta cazzuta di The Fighter. Fuqua compie un lavoro spericolato ed aggressivo nelle riprese dei match: spiattella in faccia alla macchina da presa i denti digrignati di Billy Hope, slitta nell’offuscata soggettiva degli occhi tumidi e sanguinanti del pugile, scivola a bordo ring con piani sequenza nel mezzo di montaggi forsennati, si concede il classicissimo, abusato ralenti sul colpo fatale. La colonna sonora di James Horner puntella, ma ai punti non basterebbe a Fuqua per la vittoria.
Se è vero che un film di boxe sta in piedi se capace di sanguinare, fa obbligo pretendere che, possibilmente, il sangue non appaia troppo posticcio, né puramente fisico. Ecco, allora, che il duetto Gyllenhaal\Whitaker, pugile\mentore, aggiunge decisiva sostanza emotiva: ai riflettori esasperati del ring e dei faretti della fotografia, i due oppongono, in controcampo, dialoghi smozzicati nell’ombra sporca d’un bar di periferia, così come mezze confessioni nella palestra mal illuminata. Tra le due zone d’ombra, è quella dell’attore protagonista a rifulgere ed a profilare in maniera più recisa la potente individualità di recitazione contro lo sfondo di clichè. Nulla che si consegni agli annali, ma almeno il colpo basso della banalità assoluta viene schivato.