Romanzo di una strage

La ricostruzione precisa e dolente del tragico attentato neofascista alla Banca Nazionale dell'Agricoltura di Milano, avvenuta il 12/12/1969.
    Diretto da: Marco Tullio Giordana
    Genere: drammatico
    Durata: 129'
    Con: Valerio Mastandrea, Pierfrancesco Favino
    Paese: ITA
    Anno: 2012
6.3

Anche solo il parlarne è fondamentale. Dall’intento storico di Marco Tullio Giordana di raccontare le tragedie nell’Italia del ’69, messa sotto scacco dalla guerra fredda, che iniziò ufficialmente il 12-12-69, poteva uscire un film molto peggiore. Invece quello che emerge è una strana sobrietà, niente toni accesi, nessuna recitazione urlata o “romanzata”, semplicemente, viene narrato quello che è accaduto in quel periodo, mettendo in scena volti di gente vera e spaesata, che ancora non sa quello che quello che accadde in quei mesi si ripeterà nel decennio successivo. La democrazia viene messa in solaio per far post alle bombe, all’assenza di dialogo.

Giordana ricostruisce gli eventi insistendo sui caratteri comunque anomali di quei personaggi, così molto sui generis, della cui personalità pittoresca oggi è impossibile rendersi conto: i vari Valpreda, Pinelli, il Principe Borghese, e di come la realtà delle cose venisse devastata da un Ordine superiore, che tutto decideva, a cui lo Stato italiano non poteva che soccombere.
In Romanzo di una strage si ricorda, quindi, il volto di Michela Cescon che, durante l’interrogatorio dopo la morte del marito, risponde alla fatidica domanda “i segni di contusione sul corpo di suo marito risalgono a prima o dopo l’interrogatorio di Calabresi?”, che il marito ce li aveva già prima, rendendo ancora più difficile l’interpretazione di per sé ovvia sulla possibilità che Pinelli fosse stato buttato giù dalla finestra.
E’ evidente che Pinelli sia stato assassinato, non se ne capisce il motivo semmai. E il film di Giordana non lo spiega questo. Ma nessuno lo può spiegare.

Sulla pacatezza di tono con cui Giordana racconta l’intera vicenda si stagliano le figure di Calabresi/Mastandrea e di Moro/Gifuni (anche se quest’ultimo si cala talmente nella parte che pare voglia quasi operare una mimesi onnisciente con l’anima e il corpo di Moro, facendone quasi una specie di profeta o un demiurgo della democrazia che non c’è mai stata in questo paese), che puntellano con ricchezza espressiva un film mortifero e spento, addolorato per questioni cardinali che puntano alla ricognizione di un dolore morale, politico, sociologico, quasi religioso.
L’Italia di quegli anni era ancora un paese povero che aveva visto il decennio fiorente del boom economico degli anni ’60, e stava lentamente tornando ad assistere ad una progressiva, preoccupante discesa nel baratro di un fascismo di ritorno. La povertà del paese nel film di Giordana si vede soprattutto nelle scene dell’epocale funerale davanti al Duomo ingrigito dalla pioggia. Che il senso del film stia là?

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).