Si dice che Nuri Bilge Ceylan si sia aperto al mélo e che questo sia il segno di un’inizio di stanchezza per l’autore turco. Bir Zamanlar Anadolu’da (2011), penultimo film del regista turco, aveva già comportato un cambiamento drastico nel suo cinema così formalista e distante: la sua stilizzazione si ritrova in questo ultimo Il regno d’inverno, Palma d’Oro a Cannes 2014. La differenza è che se il primo aveva una struttura narrativa che si chiudeva a riccio e dove non alla fine nel plot narrativo i dubbi si accumulavano , il secondo è un’opera molto più semplice, contrappuntata da lunghi dialoghi-duelli che puntano a rivelare le vere anime dei personaggi e la scenografia naturale serve illuminare i loro stati d’animo.
Ne Il regno d’inverno ci sono un uomo e due donne. L’uomo è un ex-attore gestore di un albergo. Con lui vivono la sorella e la moglie: due donne che vivono due diversi tipi di frustrazione, l’uomo è più posato e non sembra minimamente risentire dello stato d’animo in perenne conflitto delle due donne. L’atmosfera nel film è stranamente calda e solare, come in nessuno dei precedenti, gelidi, solitari, innevati film di Ceylan. Soprattutto Le Tre Scimmie (2008) si rivelava un thriller antonioniano senza via d’uscita, dove l’incomunicabilità puntellava ogni scena, e gli scatti d’ira facevano emergere un orrore strisciante, tale da apparire come una coltre incensata che appannava gli sguardi e teneva lo spettatore in soggezione. Mentre Biz Zamanlar Anadolu’da si presentava come un insolito poliziesco nettamente diviso in due parti, dove i meravigliosi paesaggi semi-selvaggi dell’Anatolia riducevano i personaggi a piccoli elementi immersi in un quadro più grande di loro.
Il regno d’inverno è stranamente diverso, aperto agli stati d’animo irrequieti mai celati del microcosmo borghese. Cyelan si apre per la prima volta al mélo puro, le parole servono a costruire un romanzo inedito, attraversato da un sentimentalismo seducente e misterico, dove i dialoghi annunciano un’azione perpetrata al passato e vengono rivolte verso un futuro imprecisato dove, nel tentativo irrimediabile di resistere ad una condizione presente, i personaggi si ritrovano avvinghiati in un eterno senso di sospensione psicologica, che li annulla e ne penetra le distanze temporali. Ceylan registra le loro emozioni senza più alcuna reticenza formalista, abbandonandosi al senso di insicurezza e di perdita dato, appunto, dalla fiamma del mélo. Mentre nella serrata caccia al cadavere del film del 2011, il muro d’inconoscibilità e di omertà costruito dal regista impediva che i personaggi disvelassero il mistero: ergo, tutto rimaneva nell’ombra e il senso di mistero rimane la cifra stilistica che manteneva il film su una certa orbita di fascino.
Con il suggello della Palma d’Oro Cannes rivela un Ceylan come grande autore immaginifico e delicato. La scena delle banconote che vengono gettate nel fuoco è probabilmente la scena più politica del suo cinema, gli spazi ristretti, intimi, nelle scene da camera alimentano il fuoco di un’intesa che si rende palpabile come traccia di una verità appena sussurrata; gli spazi ampi dei fiumi, le strade ricoperte di neve, delle vallate innevate e delle rocce scavate, ampliano il senso di isolamento e di scoramento interiore. E’ anche in questi contrasti che si genera il fascino di un’opera potenzialmente infinita, che non smette mai di affascinare neanche al termine dei titoli di coda.