Non sono molti i film di valore che hanno saputo farsi (tardivo) manifesto, con poca retorica, molta disillusione ma non per questo meno affetto, di quel fermento giovanile, culturale e di costume che sono stati (anche) gli anni Sessanta. Certo, non è stato Quadrophenia di Franc Roddam il primo film a ispirarsi interamente a un album rock, tanto meno a un concept degli stessi Who, per dipingere a suon di riff il quadro di un’epoca frenetica e unica.
Quando nel 1975, quattro anni prima, Ken Russell traduceva (molto liberamente) per lo schermo l’album Tommy, di Pete Townshend e compagni, mettendo in scena, in una giostra caleidoscopica e barocchissima, l’eccessivo affresco di un’epoca, in una delle prime, vere, opere rock del cinema, erano già tutti presenti gli elementi di un filone (se non di un genere) che avrebbe fatto scuola. Gioventù, alienazione, libertà, follia, sesso e droga si amalgamavano così in un caos iperbolico e “acido” che nella musica trovava il suo principio unificatore, il suo contrappunto perfetto.
Ma l’operazione che distingue il film di Roddam dal suo folle predecessore (e da altri film simili, come sarà per Pink Floyd The Wall di Alan Parker, nel 1982) pare diametralmente opposta a quella che regolava il musical lisergico di Russell. Mettendo da parte l’insostenibile peso del musical, le scenografie esorbitanti, i cammeo celebri (se si eccettua la prima comparsa cinematografica di un irrequieto Sting) la vicenda di Jimmy, giovane mod in conflitto con tutto e tutti, dalla famiglia, al mondo del lavoro passando, ovviamente, per gli odiati rockers, ha l’autenticità romanzata di un grezzo affresco di costume sulla cultura giovanile della Londra dei primi anni Sessanta, quasi più vicino al free cinema piuttosto che ai film psichedelici.
É in questo contesto che le musiche degli Who, inaspettatamente, spiccano su tutto, facendo della colonna sonora (insieme a pezzi fondamentali di quegli anni, da Be My Baby delle Ronettes a Night Train di James Brown) un personaggio a sé stante, un commento costante a una storia che non perde mai, però, il contatto con la realtà (indicativo e interessante, a tale proposito, il fatto che le scene legate agli scontri e ai pestaggi non siano musicate). A dominare su tutto, il viaggio di formazione di un ribelle senza causa, che pensa di trovare in una moda, in fin dei conti passeggera, il proprio posto nel mondo, paradossalmente, la propria specifica individualità (“Io sono Jimmy, e voglio essere diverso da qualunque altro. Ecco perché sono un mod”).
Tra anfetamine (le “pillole blu”), amori occasionali, lambrette modificate, mods contro rockers, The Kinks contro Gene Vincent, l’inquieto Jimmy rappresenta la smania, quasi folle, schizofrenica, di una generazione in gabbia, alla disperata ricerca di quell’indefinibile “qualcosa” che tanto cinema, proprio in quegli anni, stava cominciando a cercare di catturare, fotografare, immortalare. In un percorso autodistruttivo di drammatica disillusione che ha venature da commedia anarchica e grossolana, il film di Roddam (oggi curiosamente celebre per essere l’inventore del format MasterChef), è uno dei pochi a non sfigurare con il passare del tempo, a non ridicolizzarsi, a portare costantemente avanti una riflessione sull’irrequietezza, sul senso di non appartenenza, sul valore salvifico ma vuoto delle mode per individui smarriti e disperati, ad essere, insomma, con le sue musiche senza tempo, ancora fortemente attuale.