Nel mondo dorato di Hollywood la famiglia Weiss, composta dal padre Sanford, il figlio di 13 anni Benjie e la figlia Agatha, è ossessionata dalla celebrità. Agatha, psicolabile, conosce Jerome, autista di Limousine. Mentre Sanford è un guru: tra i suoi clienti c'è Havana Segrand, un'aspirante attrice, come Jerome.
Diretto da: David Cronenberg
Genere: drammatico
Durata: 111'
Con: Robert Pattinson, Mia Wasikowska
Paese: CAN, USA
Anno: 2014
Ripercorrendo tutta la filmografia di David Cronenberg, autore di Maps to the Stars, (2014) si nota come il regista canadese, pur realizzando film completamente diversi tra loro per stile e tematiche, abbia portato avanti come pochi altri negli ultimi trent’anni, uno dei percorsi autoriali più vividi e coerenti che un regista si possa permettere. Un sentiero di una poetica che dagli esordi fino all’ultimo film si è continuamente evoluta, trasformata e diversificata. La grandezza di uno come Cronenberg è stata proprio questa: rimanere se stessi, portare avanti una personalissima visione del cinema e, quindi, del mondo, ma spostando l’asticella sempre più avanti, sorprendendo in continuazione lo spettatore. Un cineasta capace di fare film sempre diversi tra loro, ma profondamente legati uno all’altro, per tematiche di fondo e stile.
Un mosaico contenutistico-stilico partito negli anni ’70 con i primi film, forse acerbi ma che possedevano al loro interno i semi del Cronenberg futuro, che esplode nel ventennio successivo con i capolavori più celebri, mostrando con sguardo unico il male attraverso il cambiamento esteriore, la mutazione del corpo e dei corpi come metafora di un interno infernale, nuove forme dell’essere in continuo divenire, umani che si completano con la meccanica perché la loro carne non basta più. Tutto questo quasi sempre con risultati molto più vicini alla mostruosità, che non ad una qualsivoglia mentalità “progressista”.
Con eXistenZ (1999) come chiusura ideale di una prima parte del racconto cronenberghiano, con Spider (2002) il regista ha iniziato una nuova e sorprendente fase del discorso. Non sono più il corpo e la carne al centro del discorso, non più la materialità laida, ma la mente e i suoi meccanismi. Cronenberg parla sempre di evoluzioni, ma solo interne, tutti i personaggi della “nuova fase” sono già di loro mostri, e Cronenberg non sente più la necessità di mostrare come lo sono diventati ma è più interessato allo sviluppo della loro psiche, alle mutazioni dello spirito e al loro manifestarsi, senza che nulla cambi nel fisico.
Il culmine della nuova teoria firmata dal nuovo Cronenberg “post-mutazione” arriva con Cosmopolis, opera tra le più seminali del nuovo millennio, ingiustamente sottovalutato da parte della critica, dove il regista riunisce in un solo film la vecchia estetica della sporcizia e la nuova estetica “ripulita”, creando una crasi efficacissima. I personaggi di Cosmopolis hanno superato l’orrore e abbracciato l’indifferenza più estrema. Il male del nuovo mondo sembra dire Cronenberg, è il vuoto della parola, è l’apatia del robot, dei numeri e delle macchine e dei contratti economici, il virus dell’oggi e del domani è l’aver perso la propria umanità a favore di una neutralità di comportamento ancora più spaventosa della nuova carne di Videodrome (1983). Come dire che per ritrovare l’umanità perduta serve tornare indietro, riprendere le radici più profonde dell’essere e provare dolore per confermare di non essersi trasformati nei mostri virtuali.
Con Maps to the Stars, pellicola successiva a Cosmopolis e in concorso a Cannes 2014, Cronenberg prosegue nel solco già tracciato, nel mettere in scena un cinema di morti che parlano, fantasmi che camminano ma che di vitale non hanno più nulla. Dall’attrice Havana Segrand (Julianne Moore) che, ossessionata dall’idea d’interpretare un ruolo iconico che fu in passato di sua madre, è perseguitata dal suo fantasma: il senso di colpa (è stata veramente lei ad appiccare il fuoco che uccise la la madre in un incendio?) non sussiste. Cronenberg torna quindi a trattare il vuoto esistenziale e materico, si immerge nei meandri più profondi di anime perse che esultano per la morte di un bambino, zombie respiranti ma senza cuore, che non hanno più coscienza, che nascondono segreti d’incesto come i coniugi Weiss, annullando la vita o almeno con l’obiettivo di farla sparire dalle proprie esistenze.
Da questo campionario forse, ed è cosa rara nel cinema di Cronenberg si salva una figura, inquietante come le altre, ma capace, a differenza dei personaggi sopracitati, di accettare il proprio peccato, di non nascondere le ferite. In questo caso, per l’appunto, il personaggio di Agatha, interpretata da un’eterea Mia Wasikowska è simbolo principale. Il suo scopo è come dice lei, fare ammenda per un errore commesso, non cancellarne i danni con segni visibili sul corpo, riaffermare la vita anche mostrando la debolezza del sangue che sgorga, tornando al dolore basico di Cosmopolis.
Agatha è una reincarnazione, un giustiziere venuta dalla Florida ad Hollywood per cancellarne gli errori, per purificarli attraverso un fuoco magico e volutamente artefatto. Cronenberg fa di lei il personaggio più umano e meno orripilante di Maps to the Stars, una decisionista che assume sulle sue spalle il compito di scegliere chi merita di morire in quel mondo di fantasmi con un volto. Se Agatha è sia il motore narrativo che metaforico di Maps to the Stars, il piccolo divo Benjamin Weiss, spocchioso e fuori controllo quanto si vuole, deve imparare a fare i conti con se stesso, col suo essere riprovevole, tremendamente umano nel capire gli sbagli e affrontare quei fantasmi che lo ossessionano.
Maps to the Stars appare solo in superficie come un attacco frontale al sistema Hollywood e alla città di Los Angeles, fauna umana compresa, come se fosse una versione più perversa di Cosmopolis, un’opera asettica, formalmente impeccabile e tutta d’interni, Cronenberg realizza un horror-melodramma che digrigna i denti, ma per la prima volta pare fare un passo indietro e non essere avanti a noi, perdendo la consueta lucidità nel ritrarre sempre con estrema originalità apsetti relativamente inediti sul mondo che ci circonda, e sui personaggi, per poi filtrarlo col suo sguardo.
E’ xome se Cronenberg avesse ribadito concetti già espressi, usando toni più grotteschi.
Maps to the Stars è ben lontano dall’essere un brutto film, ma sembra non proseguire affatto in quella linea di coerenz autoriale che è sempre stata la prerogativa di un “regista della mutazione” come Cronenberg, in quanto fatica, questa volta, ad aggiungere pezzi fondamentali al puzzle finale, limitandosi a mettere su schermo un modello di società che funga da microcosmo teorico, simile a quelli che il regista canadese ci aveva fatto conoscere precedentemente.
Forse era troppo chiedere un altro miracolo a un grande regista e sicuramente Maps to the Stars ha l’innegabile fascino del perturbante e necessita di più visioni per essere carpito appieno in tutte le sue componenti. Ma uscire poco sorpresi e poco arricchiti da un film di David Cronenberg rimane un dispiacere notevole.