In fondo non si può pretendere che Christian Vincent abbia studiato le modalità di compensazione del thriller aristocratico alla scuola di Claude Chabrol. La sua padronanza della mdp si limita ad una professionalità vecchio stampo che chiede tutto allo script e agli attori. Difatti, Fabrice Luchini e Sidse Babett Knudsen tengono le corde del dramma e persino della commedia romance con il consueto grande stile che si deve ad una media produzione francese. Si mantiene il decoro di una messa in scena del tutto povera di orpelli contando sul fatto che il pubblico raggiunga quasi subito l’empatia con personaggi calati nella normalità fantastica di un “realismo magico” che tende a descrivere la realtà francese odierna tendendo sempre presente il fatto che si sta assistendo comunque ad uno spettacolo di finzione.
Il buono de La corte (L’hermine) è proprio questo riuscire a salvarsi da una certa aura mediocritas senza mai sollevarsi da una certa pedanteria di messa in scena. Vincent non è un genio, vorrebbe cercare l’intrigo noir, utilizzando la brutta storia di un incidente in una famiglia della piccola borghesia proletaria di oggi, espone ed espande i fatti come meglio può, per poi tenersene alla larga, senza troppo interesse, concentrandosi invece sul flirt che il Presidente della Giuria Michel Racine (Luchini) tenta con la bella giurata Lorensen-Coteret (Knudsen) e sulle caratteristiche umane, necessariamente annoianti e poco incisive dei vari giurati. All’inizio, Vincent tenta anche una terza strada, compiendo una piccola operazione didascalico-documentaristica descrivendo la composizione dei ruoli all’interno del dibattimento processuale. Ma ci sarebbe voluto uno sforzo in più di regia per rendere intrigante la consuetudine narrativa, come ha fatto con grande coraggio La grande scommessa di Adam McKay, con l’unica differenza che quest’ultimo prende di petto il contesto quasi indecifrabile dei broker.
L’hermine si risolve così in una delicata dialettica dove il nervo della sintassi filmica adotta un livello di drammaturgia talmente interno ai canoni del realismo, da risultare del tutto idoneo ad una risoluzione del dramma in sottotono e senza alcun accento drammatico, sentimentale; dove la violenza del dibattimento si smorza in una rivelazione che tende togliere del tutto l’aura di mistero dal fatto cruento e dove ai membri della giuria non resta che applicare la legge seguendo quelli che sono i dettami del buon senso. Al presunto flirt tra Racine e la Lorensen-Coteret rimane un dignitoso fuori campo senza alcuna accezione erotica, o ancora peggio, sensazionalistica. Solamente, è il dignitoso riserbo che si addice ad una buona novella dove il gioco delle parti è stato equo e senza sotterfugi. La semplicità di tocco cara ad uno sguardo che fa della mancanza di uno stile degno di questo nome il suo maggior punto di forza.