Nell’edizione 2014 del Festival di Cannes, Ken Loach ha presentato la sua ultima pellicola: Jimmy’s Hall (approdato in Italia con l’immancabile sottotitolo aggiuntivo Una storia d’amore e libertà ). “Ultimo” in senso letterale, perché pare che il regista, classe 1936, abbia deciso di dare il suo addio al grande schermo con questo film, in concorso per la Palma d’oro. Jimmy Gralton era, e rimane, l’unico irlandese mai espulso dal suo paese come immigrato clandestino. Allontanato dell’Irlanda senza processo nel 1933, colpevole di aver osteggiato la chiesa ed i potenti locali, questo eroe quasi sconosciuto diventa il nodo centrale del film di Loach. Il regista si sposta con agilità fra due decenni, il 1020 e il 1930, ripercorrendo la vera storia di Jimmy, interpretato dall’attore Barry Ward, e della costruzione della sua Hall.
I titoli di testa scorrono su immagini di repertorio dell’America post-1929. Poi, improvvisamente, lo schermo è invaso dalle distese verdeggianti dell’Irlanda. Jimmy Gralton, dopo dieci anni passati negli Stati Uniti, rimpatria nel paese natale per aiutare l’anziana madre nella gestione della fattoria di famiglia. Gli abitanti del paese lo accolgono come un eroe, i ragazzi lo fermano per strada, increduli. Tutti invocano incessantemente la riapertura della Sala, una dancing hall costruita da Jimmy prima della partenza verso l’America, in cui chiunque poteva dare e seguire lezioni di ogni genere: canto, pugilato, musica e, immancabilmente, danza. Con fluidità si scivola nelle vicende di dieci anni prima, durante la costruzione della sala nel 1921. Allora come adesso, i progetti di Jimmy non tardano ad incontrare le feroci opposizioni del potere locale: i proprietari terrieri e la chiesa. Così come in quei primi anni, la sala non fa che fomentare le tensioni che hanno agitato l’Irlanda in quei decenni irrequieti. La danza diventa un pretesto per le infervorate prediche del parroco; la sala si trasforma in luogo di perdizione in cui si ascolta musica americana ballando con osceni “movimenti pelvici”.
Se non fosse per il jazz, potremmo quasi dimenticarci che Jimmy è mai stato lontano dell’Irlanda. Unico ricordo di quegli anni americani è un moderno grammofono, corredato da dischi di una musica che verrà definita, dal fantasioso parroco, come ritmo dell’Africa Nera. In men che non si dica, il complesso locale, che fino a qualche giorno prima aveva suonato solo danze celtiche, si trasforma in un complesso jazz da far impallidire i newyorkesi. La sala rinasce e, con essa, le tensioni riemergono più forti che mai. Gli abitanti del villaggio sono pronti a tutto, anche a essere picchiati a sangue dai genitori per aver frequentato un simile luogo di perdizione. La chiesa, a sua volta, non ammette cedimenti, e anche di fronte all’incontestabile innocenza delle attività della Hall, si scaglia con virulenza contro ogni iniziativa che non la veda coinvolta in veste di organizzatrice. E i proprietari terrieri, i cattivi per antonomasia, non possono che schierarsi con quest’ultima, facendone anche il lavoro sporco: sparare alla cieca sulla sala gremita di donne e bambini.
Questo non è un film di sfumature: i personaggi sono divisi in due gruppi ben distinti, e mai uno di loro riesce od osa attraversare la linea di demarcazione. Il film dimostra una grande integrità, sia nella rigorosa ricostruzione del periodo, sia nello stile delle riprese e del montaggio. Il racconto non è mai lento e, nonostante si muova lungo un arco narrativo piuttosto lungo, non avvertiamo mai alcun passaggio brusco da una scena all’altra. Questa storia insolita e coraggiosa ci lascia con un senso di gioia, ingiustizia e speranza. Ma soprattutto, ci fa sentire in colpa per non aver mai sentito prima il nome di Jimmy Gralton.