Dove e come si decide se e quando un film è bello o brutto e se vale la pena essere visto o no? può la forma da sola, il solo nome del regista avere un’importanza strategica nel giudizio dell’opera? Può il solo contenuto essere da sé cinema? Nel caso di Io e Beethoven di Agniezska Holland del 2006, si può mettere da parte lo snobismo critico e vedere nella storia l’unico strumento di senso che giustifichi la visione?
Il film racconta degli ultimi giorni di vita del grande compositore Ludwig Van Beethoven, il quale ha composto la sua ultima opera e dopo pochi giorni la deve presentare al pubblico. Ma il lavoro da fare è enorme, la salute del Maestro è cagionevole e il tempo è poco. Allora in suo aiuto arriva una giovane copista, Anna Holtz, la quale dovrà assisterlo nella faticosa preparazione dell’esibizione.
Agniezska Holland taglia e cuce, probabilmente è vero, il suo stile è traboccante di kitsch e il suo punto di vista asseconda uno script più adatto ad una telenova che al cinema. Eppure la camera vola, il cast fa il suo più che onesto dovere, Ed Harris ci mette sudore, lacrime e passione, Diane Kruger la sua bellezza senza tempo e, per una volta, sembra non sfigurare in un ruolo che sembra cucito a puntino per lei. La Holland sembra avere un rapporto semi-reverenziale nei confronti del Maestro e mette in scena le sue manie e le sue debolezze come in un romanzo d’appendice.
Nulla di nuovo. Ma certe volte il cinema funziona proprio in virtù della sua estrema semplicità. La Holland conosce bene la musica del compositore, ne mette in scena la sontuosa bellezza senza ridondanza o compiacimento: in Io e Beethoven la musica viene filmata, le note risuonano, il Volto di Dio nella furia del grande compositore si esprime placido e commosso.
Ritornando al discorso sulle politiche della visione, sul perché un film possa essere definito bello o brutto, si può dire che Io e Beethoven assurge alla potenza di un relativo annichilimento della forma, a vantaggio di un contenuto piuttosto sobrio e connesso ad un’idea di bellezza sinfonica che s’immagina all’interno del frame. Si riconosce alla Holland una padronanza essenziale delle note del Maestro, una specie di coscienza del movimento sonoro, il grado zero della forma, nell’atto di una rivendicazione di estetica che la Holland stessa ammette di non avere.
Le note sono fatte per essere ascoltate da uno spettatore non asservito al giogo del cinema.
Beethoven si può ascoltare benissimo anche senza guardare le immagini, la Holland dice proprio questo. La luce calda di Ashley Rowe dipinge un clima di saturata calma all’interno di una narrazione tormentata e relativamente deja-vu, questo fa si che lo sguardo possa annegare dolcemente nel lento sonno rivelatorio di una imprevedibile ricognizione sul senso del fare musica, come se la Holland volesse penetrare il pensiero stesso del Maestro.
Quindi, con Io e Beethoven, sia di fronte al kitsch? E davanti al celebratissimo INLAND EMPIRE a cosa siamo davanti? Se non alla dimostrazione di superiorità estetica di un ex grande regista sul destino del cinema e sulla politica dell’immagine. Suvvia, Lynch non ha nulla da dire, tenta un timido discorso sul digitale, ma non può che arrancare verso l’indefinita gemmazione di oltre-mondi sconnessi e del tutto fuorvianti. Non esiste un film più povero di contenuti di INLAND EMPIRE.
Il paragone con la Holland di Io e Beethoven può sembrare oltraggioso, eretico, quasi demenziale, ma non si può lasciare che a dettare le regole di visione del cinema sia la politica del cineasta, dell’autore, dell’estetica. Lynch ha solo ricopiato un cinema che aveva fatto già in precedenza, stilizzando la messa in scena e trasformando il film in una serrata e noiosissima distribuzione di umori e di chiacchiere a vuoto intorno ad un set cinematografico, come se il grande Maestro dovesse pure spiegarci come si fa il cinema. Non se ne sente il bisogno.
La Holland aveva una storia, molto semplice e l’ha raccontata. Punto. Senza storie il cinema non ha diritto di esistere. Men che meno ha il pubblico necessità di avvicinarsi a film che mimano solo il pensiero di un cineasta che è stato grande in passato e vive ora di nostalgia per qualcosa che non può più essere riportato in auge. Ben venga allora il kitsch di Io e Beethoven, che rinomina un’estetica vituperata per prendere all’interno di essa un discorso antico e sostanzialmente giusto.