Il labirinto del silenzio

Germania Ovest. Nell’immediato dopo guerra, il procuratore Johann Radmann scopre che nella società civile si nascondono ancora molti ex-nazisti, scampati ai processi grazie ad una complessa rete di omertà e protezioni. La rivelazione del complotto solleverà grande indignazione e scalpore.
    Diretto da: Giulio Ricciarelli
    Genere: drammatico
    Durata: 124
    Con: Alexander Fehling, André Szymanski
    Paese: GER
    Anno: 2014
7.3

Diretto da un italiano cresciuto in Germania, Giulio Ricciarelli, che con quest’opera debutta nel lungometraggio, Il labirinto del silenzio è un’opera di produzione tedesca, con un cast esclusivamente tedesco, che si dimostra coraggiosa senza strafare. Ricciarelli, partecipando anche alla produzione e scrivendone la sceneggiatura insieme a Elisabeth Bartel, dalla quale è nato il progetto, svolge un ruolo decisamente importante nella creazione di questo lavoro, che propone l’ennesima angolazione dalla quale osservare gli orrori dell’Olocausto e ha il merito, di affrontare una tematica tra le più trattate e dai più grandi autori, scegliendola come suo esordio e rappresentandone un frammento che non è mai stato raccontato.

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SI tratta, infatti, dell’esposizione accurata di una parte della storia tedesca poco conosciuta, quella del primo processo indetto in Germania, nel 1963, volto a riconoscere e condannare i responsabili dei crimini commessi ad Auschwitz. I fatti sono ambientati a Francoforte, nel 1959, dove la maggior parte delle persone consapevoli di ciò che è accaduto, non vedono l’ora di dimenticarlo e di riprendere una vita normale, tendendo a coprire ricordi e onta con colori allegri e omertà, sulla scia della ripresa economica. Dove gli ex ufficiali delle SS che hanno servito per l’esercito tedesco nei campi di concentramento, dopo il processo di Norimberga che ha condannato i capi nazisti, sono tornati a una vita ordinaria e svolgono attività comuni, dal panettiere all’avvocato, al medico, all’insegnante (“non crederà che dopo la morte di Hitler i nazisti siano scomparsi… sono ancora dappertutto”). E dove soprattutto e incredibilmente, gli appartenenti alle nuove generazioni, non hanno idea nemmeno di cosa sia Auschwitz, di cosa vi sia accaduto, molti non la hanno nemmeno mai sentita nominare. È in questo contesto che un giovane procuratore di uno studio legale, anch’egli appartenente al congruo numero di inconsapevoli, cade dalle nuvole, venendo in contatto, grazie a un giornalista, con informazioni che lo portano a scoprire l’entità degli eventi verificatisi in Polonia, e decide, nonostante gli ostacoli, di andare a fondo e, con il sostegno del Procuratore Capo Bauer, noto per essersi battuto contro i crimini del nazismo e al quale è dedicato il film, di aprire un inchiesta che porterà poi al processo con il quale per la prima volta, la Germania, ha condannato i propri connazionali per le atrocità commesse durante la guerra.

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L’opera consta di una narrazione abbastanza semplice, priva di grandi exploit o di guizzi eclatanti, senza grandi elementi di originalità, ma comunque solida e abbastanza efficace, che consente allo spettatore di appassionarsi a una vicenda poco nota ma fondamentale. Ciò la differenzia dal bellissimo Son of Saul, pellicola ungherese incentrata anch’essa sulle atrocità del nazismo che, a differenza del film di Ricciarelli, ha ottenuto la nomination all’Oscar per il miglior film straniero; senza dubbio molto più particolare e a mio avviso più pregevole, il film di Laszlo Nemes, avrebbe avuto comunque molte più probabilità di vincere la statuetta, ma non è un motivo per parlare di questo come di un film privo di qualità e spessore. La sensazione è che gran parte del lavoro lo faccia la sostanza di cui ci si occupa, che per la sua importanza e il suo valore, regge da sola quasi tutto il film. Ciò non significa che non siano apprezzabili l’eleganza con la quale l’autore mette in scena gli eventi narrati, le interpretazioni, non indimenticabili ma più che sufficienti, tra le quali spiccano quella del giovane protagonista Johann Radmann, interpretato da Alexander Fehling, e quella del procuratore capo Bauer, interpretato da Gert Voss, e una fotografia e una colonna sonora abbastanza valide, che contribuiscono a confezionare un prodotto discreto e godibile. Senza inserire nemmeno una scena riguardante direttamente le torture e le crudeltà perpetrate, il regista riesce a esprimerne in modo convincente e incisivo l’atrocità, attraverso le efficaci espressioni degli attori che comunicano piuttosto bene sia la costernazione, davanti alla presa di coscienza, sia il contraltare fornito dalla mimica impassibile di chi viene condannato e perseguito, che non ha mai espresso senso di colpa o comprensione.

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E davanti a una realtà di tale portata, l’elemento forse di maggior pregio del film, è la riflessione sul fatto che l’enormità di un qualcosa, l’infinita quantità di conseguenze e l’espansione a macchia d’olio che può generare prenderlo in considerazione, lo rende, non solo difficilmente concepibile, ma anche quasi intollerabile. Perché porta a mettere in discussione le proprie certezze, principi e convinzioni, fino a quel momento inattaccabili. Radman arriva gradualmente a rendersi conto, che chiunque può essere considerato colpevole, il suo amico, il suo collega, perfino suo padre, che lo ha cresciuto sulla base di un principio di giustizia. E se tutto questo può traballare, allora non è detto che si sia in grado di sopportarlo. Bello il suo tormento davanti a tale presa di coscienza, in particolare toccante, la scena del sogno, in cui, trovandosi davanti alla realtà, all’identità così ampia e totale di chi è responsabile, si ritrova ad avere mani, occhi e bocca cuciti. E ancora una volta, ciò che sconvolge maggiormente, è quanto sia stato facile perdere il giudizio critico individuale, aderendo a un diktat esterno per quanto potente. Dà l’idea di persone vuote, plasmabili come pupazzi. E se non si fosse certi che persone vuote non ne esistono, sarebbe legittimo pensare, e purtroppo non solo in questo caso, che però ne è uno dei maggiori esempi, che la specie umana non si manifesti in un’unica forma. Perché non riesce proprio, di digerire che simili spegnimenti delle proprie capacità di critica, tali da consentire di commettere azioni così abominevoli, possano essere opera di individui di una stessa specie cui tutti apparteniamo.

A proposito dell'autore

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Appassionata di cinema da sempre, tanto da considerarlo un fedele compagno di vita e una malattia ormai felicemente incurabile e irrecuperabile. Ha sempre inserito questa grande passione nel suo lavoro di psicoterapeuta, utilizzando il cinema come vero e proprio strumento terapeutico, scrivendo una tesi e articoli scientifici a riguardo e effettuando sedute di cinematerapia sia individuali che di gruppo. Ha collaborato e collabora con diverse riviste, come Cinefarm, Cinematografo.it, Artnoise.