Nascere in una casa con una famiglia che ti cresce e ti educa. Nascere in una società, che ti impone quella determinata cultura, quelle leggi sociali da rispettare e conservare. Nascere e scoprire ad un tratto di essere un altro. Due identità confuse e scambiate sin dall’incubatrice, destinate ad incontrarsi e scontrarsi per la vita.
Basterebbe questo a rendere complesso il processo vitale di due diciottenni, ma in realtà la regista ha voluto puntare più in alto: Joseph e Yacine sono palestinese ed ebreo, rispettivamente. Due etnie, due popoli, due mondi che condividono forzatamente la stessa terra; uno prigioniero l’altro occupante. C’è rabbia verso l’ebreo, perché arrogantemente ha invaso una terra che non gli appartiene, distruggendone il popolo. Usi, costumi, religione, lingua e averi sono messi in discussione quanto un gruppo sanguigno e i propri genitori.
Si può perdere tutto e divenire il peggior nemico di se stessi, ma continuando ad imporre il rispetto e la cura di quel che si è stato, di quel che si è. Smarriti, senza più il diritto di sentirsi israeliani o palestinesi, senza più conoscere i propri fondamenti, i due giovani comprendono che nella sventura è stata concessa loro una rara opportunità: la possibilità di arricchirsi e unire le proprie forze o debolezze con quelle di un altro, specchio e riflesso della propria immagine. Perché se è vero che hostis in latino significa straniero e nemico, è altrettanto vero che può voler indicare la parola ospite. Colui che ospita o colui che viene accolto. Dando dunque ad esso la valenza di scambio, di dono. Non ne beneficia uno soltanto, bensì è un omaggio per entrambi: dove la condivisione serve a crescere e a fare dei frammenti del sé un’opera d’arte.
Una grande prova deve essere affrontata da due giovani uomini: abbattere la propria barriera individuale, non potendo annientare quella diplomatica e comunitaria; in un mondo in cui il pregiudizio, la paura e la guerra fanno sentire la loro eco continuamente e dove non c’è tolleranza per l’altro. La diversità è la prima colpa, la prima condanna; come se un bambino avesse deciso di nascere musulmano piuttosto che cattolico o buddhista. Come se un uomo potesse non essere tale avendo un altro colore di pelle, lingua o stirpe. Una frontiera costruita da persone e divenuta apparentemente insormontabile, eppure Joseph e Yacine insegnano a sognare: si può superare un preconcetto, si può essere tutti figli legittimi sotto uno stesso cielo, si può guardare l’altro come se non fosse un alieno; perché al mondo non dovrebbero esistere i buoni e i cattivi, i belli e i brutti, gli aventi diritto e i nullatenenti. Così come non dovrebbero esistere le intransigenze verso l’alterità. La bellezza del film è l’aspettativa che lascia riporre: come se ci si potesse immaginare e augurare, un giorno, di vivere seguendo questi sani principi e eliminando le attuali inutili e superflue sovrastrutture.